Scricchiola il modello dei lavoretti nel trasporto condiviso. La California ha ordinato a Uber, che negli Usa controlla il 69% del mercato della mobilità alternativa ai taxi, e alla sua rivale Lyft, di inquadrare gli autisti come personale dipendente e non come collaboratori esterni indipendenti. Il colosso, secondo le accuse, non si è adeguato alle nuove leggi della California che da inizio anno impongono alle aziende di riconoscere ai loro lavoratori tutti i benefit. Insomma, i conducenti non possono più essere considerati liberi professionisti e hanno diritto a un regolare contratto con ferie, malattia, permessi e altro. Se lunedì prossimo il tribunale californiano non dovesse accettare il ricorso presentato dalla multinazionale, il ceo di Uber Dara Khosrowshahi ha già minacciato di sospendere tutte le attività in California, perché – ha spiegato – sarebbe impossibile passare in breve tempo al nuovo modello di business richiesto dalla sentenza. Inoltre, il colosso sostiene che per riclassificare i guidatori come dipendenti ci vorrebbe molto tempo. Solo a San Francisco si contano 45 mila autisti Uber contro duemila taxi con licenza.
Se la sentenza diventasse esecutiva, per Uber & C. i costi operativi lieviterebbero di oltre 25%, oltre a registrare una riduzione della flessibilità nei servizi offerti. Gli autisti, infatti, dovrebbero avere regolari turni di lavoro. Un’ulteriore sbandata per Uber che ha già registrato perdite nette per 1,8 miliardi di dollari nel secondo trimestre dell’anno a causa della pandemia. Uncrollo attenuato dal boom della consegna di cibo a domicilio di UberEats, il cui fatturato è raddoppiato. Ma secondo Barclays, regolarizzare gli autisti porterebbe le perdite di Uber a 2,5 miliardi. Non sarebbe solo un tracollo finanziario, ma anche la sconfitta della gig economy che ha fondato il proprio business sul riconoscimento dell’autonomia dei propri autisti che non saranno mai dipendenti. Il ceo di Uber Khosrowshahi lo va ripetendo dal 2017: “I conducenti sono consapevoli di essere lavoratori indipendenti e apprezzano la flessibilità”. Poi c’è l’altra versione degli autisti che lamentano la mancanza di diritti e compensi (“Miliardi ai boss e paghe povere per i driver”) e che si stanno battendo in mezzo mondo per ottenerli. Lo hanno fatto anche lo scorso anno quando Uber si è quotata in Borsa con una delle più grandi Ipo di sempre. “Questa è una vittoria clamorosa per migliaia di conducenti che stanno lavorando duramente per provvedere alle loro famiglie”, ha detto il procuratore di Los Angeles Mike Feuer.
A Uber resta così solo la carta delle minacce per preservare un modello di capitalismo che pur di far guadagnare i giganti delle app impone condizioni durissime ai lavoratori. Non è più una questione di concorrenza sleale che ha messo fuori gioco Uber in Italia, Spagna o Germania dopo una battaglia estenuante dei tassisti. Uber ha perso la licenza di operare in Gran Bretagna perché non ha verificato l’identità degli autisti mettendo a rischio la sicurezza dei passeggeri. Ed ora che il numero dei suoi rider ha per la prima volta superato quello degli autisti, si è vista commisariare in Italia per la vicenda dei fattorini in bici sottopagati.
Non chiamateli lavoretti.