Il divorzio consumato nella pazza estate 2019 tra Papeete (resort di Milano Marittima e buen retiro di Matteo Salvini) e Rousseau (piattaforma online del M5S) ha il sapore dell’ironia storica. Appena scoperti dai navigatori inglesi e francesi approdati in Polinesia (1769), il villaggio di Papeete e l’isola di Tahiti furono infatti subito identificati con la perfetta incarnazione terrena dello “stato di natura” descritto proprio da Jean-Jacques Rousseau pochi anni prima.
Già col Viaggio intorno al mondo (1771) di Louis-Antoine de Bougainville (eponimo della pianta dai fiori colorati, scoperta dai suoi uomini in Brasile), nell’immaginario europeo Papeete e Tahiti diventano la “Nuova Citera” in cui si vive “senza vizi né pregiudizi, senza bisogni né conflitti”, senza ambizioni né intrighi né competizione: tutti sono sani e robusti (circolano nudi a partire dalla pubertà), la terra offre nutrimento per ciascuno (senza bisogno di coltivarla) e l’accoppiamento è libero (si promuove la maternità, ma ci si sposa a piacimento, anche solo per una o due lune). Per di più – Open Arms! – a Papeete l’ospitalità nei confronti degli stranieri, compresi gli Europei colonizzatori, è sacra, ricca e festosa.
Pregna di reminiscenze classiche (Scheria, Atlantide, i Giardini delle Esperidi, la nascita di Afrodite, ma soprattutto l’Età dell’oro), la fortuna letteraria di Tahiti è per un secolo vasta e univoca: il buon selvaggio, la terra feconda, l’edonismo quotidiano, la sessualità libera, l’eguaglianza sociale. Soprattutto, le donne giovani e “divine”, le mitiche vahine cantate nella Fanciulla di Tahiti di Victor Hugo o nel Matrimonio di Loti (1879), esordio letterario di Julien Viaud (di lì in poi, alla polinesiana, Pierre Loti); o ancora la principessa Moe che guarirà Robert Louis Stevenson ammalato a Tautira.
Tutti miti sostanzialmente infondati (lo riconobbe, tardivamente, lo stesso Bougainville), ma capaci di creare un’aura leggendaria che persiste ancora nel nome scelto da Massimo Casanova per il suo stabilimento romagnolo: Papeete non evoca solo il “lungo sciabordío del mare di zaffiro/ che preserva vergine la terra” o “la città dalle strade d’erba/ amata dalla luna, benedetta dall’aurora” (Stevenson), ma anche un orizzonte di evasione, di libertà, di felicità. Al Papeete, poi, si ostentano i tatuaggi: la moda di dipingersi il corpo (polinesiano tatao) riemerse in Occidente proprio dopo l’arrivo alla corte di Giorgio III, al seguito di James Cook, del notabile papeetiano Omai (ancora negli Anni 80 Michel Tournier distingueva i tatuaggi integrali maohi esibiti sul collo o sul viso, da quelli nostrani riposti “in luoghi più intimi” sotto i vestiti; ma oggi è il tempo di Fedez e Achille Lauro).
Ogni mito è destinato al declino. Già nel Supplemento al viaggio di Bougainville di Diderot (1774) il dialogo tra un Tahitiano e un Francese fa a pezzi la società occidentale e i suoi costumi, e un anziano del luogo immagina profeticamente il momento in cui i mores europei (e cristiani) renderanno schiavi gli indigeni, privandoli di arti, abitudini, libertà – un processo già in atto quando nel 1847 Herman Melville narrerà nel romanzo Omoo la sua detenzione per ammutinamento nelle carceri di Papeete. “I nostri missionari hanno importato molta ipocrisia ed eliminato in parte la poesia” scrive Paul Gauguin arrivando nel 1891 a Papeete nei giorni in cui muore l’ultimo sovrano indigeno Pomaré V, e l’amministrazione passa del tutto in mano francese: in cerca di autenticità e di una compagna tredicenne, il pittore – che per i cinefili dal 2017 ha le fattezze di Vincent Cassel – scappa dunque nei villaggi dell’interno, a immaginare le Parole del diavolo (1892, Washington, Nat. Gallery) e a chiedersi Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? (1898; Boston, Mus. of Fine Arts).
“Tahiti è uno dei posti più belli del mondo, abitato da ladri, mariuoli e mentitori” annota Jack London nel 1911 (La crociera dello Snark). In parte stregato da Gauguin (le biografie di Maugham e Vargas Llosa), in parte vittima dei sensi di colpa coloniali (che non impediranno a Marlon Brando di acquistare un atollo, e di cederne un altro all’amico Michael Jackson), il Novecento sarà impietoso nel rappresentarne il lato oscuro: la rovina di una società pagana al cospetto degli Europei (Victor Segalen, Le isole dei senza memoria, 1907), i turisti naïf in cerca di ridicole palingenesi (Georges Simenon, Turista da banane, 1937), i mestatori pronti a creare una Disneyland esotica (Romain Gary, La testa colpevole, 1968). Tanto più prezioso il recente contributo degli autori indigeni, come Chantal Spitz che descrive in uno stile quasi “orale” L’isola dei sogni spezzati (1991): un’isola sfruttata, poco scolarizzata, e squassata dagli esperimenti nucleari francesi iniziati nel 1963 – le breaking news da Papeete nel 1995 mostravano le furiose rivolte dei locali contro le bombe e i funghi di Chirac a Mururoa.