La proposta costituzionale firmata nel 1985 da Stefano Rodotà e Gianni Ferrara fa parte dell’ampio novero delle occasioni perse a sinistra. Già 35 anni fa, infatti, c’era chi aveva colto il problema della mancanza di legittimazione della democrazia parlamentare e già allora proponeva il monocameralismo (soprattutto questo), il referendum propositivo o la riduzione del numero dei parlamentari.
La fase era segnata dalla “Grande riforma” craxiana finalizzata a introdurre il presidenzialismo che, come diceva Bettino Craxi, “può essere considerato una superficiale fuga verso una ipotetica Provvidenza, ma l’immobilismo è ormai diventato dannoso”. Il fedele Giuliano Amato si spingeva oltre e, alla elezione diretta del capo dello Stato, aggiungeva anche il rafforzamento della figura del presidente del Consiglio.
A questa offensiva la Sinistra “indipendente” (parlamentari eletti nelle liste del Pci), presieduta da Rodotà e di cui facevano parte nomi come Andrea Barbato, Franco Bassanini o Vincenzo Visco, opponeva una concezione basata soprattutto sul monocameralismo come passaggio chiave per ribadire “la forma parlamentare di governo”. Soltanto “attraverso un organo unico” era possibile che “la proiezione nell’indirizzo di governo della volontà e degli obiettivi dell’istanza rappresentativa sia diretta, unitaria, effettivamente vincolante”.
La riproposizione “convinta” della soluzione monocamerale era finalizzata, però, soprattutto “alla rilegittimazione democratica delle istituzioni”: “Le istituzioni centrali in Italia – scrivevano Rodotà e compagni – hanno urgente necessità di recuperare una loro autenticità democratica, un’immediatezza espressiva”. Il punto sembra oggi essere eluso dalla sinistra mentre al tempo risentiva molto dell’influenza di Pietro Ingrao il quale per dare “centralità al Parlamento” era convinto che occorresse seguire “la via limpida e ragionevole del monocameralismo e della riduzione del numero dei parlamentari”. Non a caso queste posizioni vengono ricordate oggi dal Centro per la riforma dello Stato (di cui Ingrao è stato presidente) che sul referendum, a sinistra, ha una posizione più articolata.
Quel monocameralismo non c’entrava nulla con le idee di Matteo Renzi e già allora prendeva adeguatamente le distanze da “proposte attraverso cui si tenta di mantenere il bicameralismo fornendogli una giustificazione e una base nuova”. Tipo la Camera delle Regioni o cose analoghe.
Quell’analisi aveva una sua robustezza per cui si poteva permettere di proporre anche il “referendum propositivo”. Lo stesso che, su iniziativa M5S, è stato approvato in prima lettura alla Camera e che costituisce un tassello del pacchetto di riforme istituzionali: “Aprire le istituzioni alla partecipazione popolare, dicevano i giuristi della Sinistra indipendente, è un’esigenza indubbia” che “deve essere raccolta armonizzando al massimo le forme della democrazia rappresentativa con quelle della democrazia diretta”.
La riduzione del numero dei parlamentari appariva scontata, faceva parte di obiettivi “che sembrano quanti mai commendevoli anche al di là del risultato già conseguibile con l’introduzione del sistema monocamerale”. Così si “tende a realizzare una riduzione del numero complessivo dei parlamentari molto consistente (500 deputati in una sola Camera, ndr), molto opportuna e, tuttavia, non tale da precludere la rappresentanza delle forze politiche anche minori”.
Infine, la vera intuizione, animata di garantismo democratico e parlamentare: “La scelta unicamerale, da una parte, la riduzione del numero dei parlamentari, dall’altra, impongono, per ragioni intuibili e confluenti, che i principi e le finalità della rappresentanza parlamentare vengano sanciti in Costituzione”. Così, l’articolo 59 della Costituzione veniva riscritto: “La legge elettorale si ispira ai principi della rappresentanza proporzionale e ne attua le finalità”. Se si volesse dare seriamente seguito alla riduzione dei parlamentari, dopo aver perso 35 anni, si potrebbe ricominciare da qui.