“Mio padre è Cristiano Ronaldo”. Potrebbe essere il titolo di un film di Gérard Depardieu. O perfino di un romanzo. E invece è la voce che rimbalza tra i bimbini di 5-6 anni che rincorrono la palla su una spiaggia della Calabria jonica. Eccitazione e concitazione. Lo ha garantito uno smargiassino bruno ai coetanei ammirati. Solo che uno di loro non ci casca e va dalla zia: “c’è un bambino che deve essere un bugiardo”, denuncia. La massima accusa, praticamente una parolaccia. “Dice di essere figlio di Cristiano Ronaldo”. La zia avvicina il piccolo millantatore con fare delicato: “Come si chiama il tuo papà?”. Stavolta il bimbino non mente: “Rosario….”. E in effetti sotto l’ombrellone sta seduto un fisico giovane, non flaccido, ma siamo su altri pianeti.
La zia me lo racconta incredula ma non troppo. Forse fino a rinnegare il padre no, mi dice, ma sa quanti ne ho visti? La giovane signora, di nome Teresa, fa casting di bambini e adolescenti per cinema, tivù e spot pubblicitari. Spiega che non li seleziona solo osservandoli fisicamente, per misurarne espressione e gestualità. O facendoli parlare, per sentire tono e accento. Dice che è utile anche conoscerli un pochino, chissà mai che venga un’idea in più su come impiegarli. Perciò fa loro alcune domande.
Chiede soprattutto che cosa vogliono fare da grandi. Racconta che l’ultima volta ne ha passati in rassegna un centinaio tra i sei e gli undici anni. E che è rimasta sbalordita dalla quantità di piccoli candidati desiderosi di diventare non dei calciatori, che è la norma dei bimbi sognatori, ma proprio e con precisione Cristiano Ronaldo. Perché è il più forte di tutti, perché è quello che fa gol (ma c’è chi, meno conosciuto, ne ha fatti più di lui…), e perché sono praticamente tutti juventini visto che a stare con chi vince si impara già da piccoli.
Andando verso gli undici anni, aumentavano anche le spiegazioni di altro tipo: perché guadagna un sacco di soldi, perché ha le macchine più belle, perché ha le ville. Si fosse spinta verso i quindici, probabilmente sarebbero spuntate anche le donne.
La signora aggiunge anche che solo quattro o cinque dei maschietti hanno dato risposte diverse: uno voleva fare il medico e uno che l’aveva colpita sognava di aprire una pasticceria di macarons. Mentre invece selezionando le bambine cambiava tutto. Come se si fosse sparsa una voce durante l’attesa, moltissime volevano fare le veterinarie, usando però il termine “dottoresse degli animali”. Segno di nuove sensibilità, forse. Sicuramente una motivazione non materiale ma morale, a meno che non sia in giro qualche serie tivù con protagonista una giovane e avvenente veterinaria di successo. Altro mestiere? Estetista o parrucchiera.
Così ho pensato che davvero abbiamo, o meglio avremmo, a disposizione cento occhiali per conoscere meglio un mondo che ci sorprende sempre. Ma tendiamo a non usarli, e certo il distanziamento sociale non ci aiuta. Ma ascoltare sì, possiamo permettercelo. Non correre pure. Ed è qui che l’estate arriva in aiuto.
Cambia il contesto e uno scrittore piuttosto famoso mi racconta di avere avuto a che fare di recente con un ospedale, non per Covid, mi chiarisce. E che non essendo un assiduo di visite e strutture sanitarie ha dovuto spiegare ai medici, stupiti per la sua inesperienza, che quella era la sua prima volta in ospedale. Ma davvero? E in famiglia? gli han chiesto. Mio padre sì, ha risposto, ha avuto dei problemi, ma veniva da Mauthausen. I medici lo hanno guardato affettando di capire, ma in realtà immaginando visibilmente che parlasse di una località inquinata o insalubre. Perché abbiamo istituito per legge il giorno della memoria ma poi dire Mauthausen non basta. È un po’ come dire Taranto o Nembro, chissà solo dove sarà. E tra questo e “vendere” un padre innocente per Cristiano Ronaldo non so cosa sia peggio.