Avete presente quando, una ventosa mattina di marzo, Zivago va a trovare Lara, dopo averla veduta in biblioteca senza avere il coraggio di avvicinarla? Poco prima dell’infedeltà coniugale che tante angosce causa al povero Jurij per via dell’amore e della “venerazione” che prova per la moglie Tonia (per difendere l’onore ferito di lei “avrebbe fatto a pezzi con le sue mani chi le avesse recato offesa. E in quel caso si trattava di lui stesso”), Lara fa un famoso discorso sulla coerenza. E, parlando della Rivoluzione, dice: “Solo nei libri peggiori gli esseri viventi sono divisi in due campi ben delimitati e non si sfiorano nemmeno. Ma, nella realtà, tutto è così intrecciato! Che irrimediabile nullità bisogna essere per recitare nella vita un’unica parte. Occupare un unico posto nella società, significare sempre e soltanto la stessa cosa!”.
Questo passaggio dev’essere stato la lettura estiva che ha folgorato sulla via del referendum costituzionale settembrino un po’ di parlamentari e i meglio commentatori di casa nostra. I quali dopo essersi per anni riempiti la bocca con la parola “governabilità” e con stupidi slogan tipo “la sera delle elezioni bisogna sapere chi ha vinto”, si scoprono all’improvviso numi tutelari del parlamentarismo.
Dal 2006 abbiamo votato tre volte con una porcheria di legge elettorale (il calderoliano Porcellum) con liste bloccate e un premio di maggioranza abnorme e poi non abbiamo votato con una successiva legge elettorale (l’Italicum renziano) mai entrata in vigore perché, presentando gli stessi problemi di costituzionalità, è stata come la precedente bocciata in più parti dalla Consulta.
A fronte di queste reiterate violazioni del patto di fiducia tra elettori ed eletti si ricordano solo critiche di parte: dei giornali di destra nei confronti dell’Italicum, di quelli di sinistra nei confronti del Porcellum. Ora la buona salute delle nostre istituzioni è diventata un imperativo categorico trasversalmente condiviso: non possiamo che gioirne (meglio tardi che mai) e dunque ben venga una discussione sulla centralità del Parlamento e sul suo eventuale dimagrimento.
Basta che non ci sia chiesto di credere alla buona fede e va tutto bene. Compresi comici déjà-vu in cui si può incappare in queste settimane di caldo torrido: “Il referendum è su Conte, se vince il no cade il governo”, dice un titolo del Riformista sotto l’occhiello “la madre di tutte le battaglie”.
Detto ciò, i migliori testimonial della campagna per il Sì sono i parlamentari che dopo aver votato per il taglio ora sono per il No. La settimana scorsa è stata la volta della grillina Elisa Siragusa, ieri sul Corriere ha vinto il campionato di acrobazie Matteo Orfini, sentinella renziana di stanza nel Pd. Dopo aver votato tre volte no, il partito di Zingaretti l’ultima volta si è espresso in favore del taglio. Ma ora che si tratta di confermare con il referendum una scelta così sofferta, è di nuovo il No a tentare i dem.
Dice Orfini: “Il sì è nato da una richiesta di Nicola Zingaretti basata su due fattori: quella era la condizione per far nascere il nuovo governo Conte; e tutti erano d’accordo a dare vita subito a una legge elettorale e a correttivi costituzionali che eliminassero gli effetti negativi di quella norma”. Tutto è davvero troppo “intrecciato”, come direbbe Lara. Il fatto è che non siamo in un paesino degli Urali, i turbamenti sentimentali e i tradimenti dei partiti non provocano in noi alcuna comprensione: le riforme costituzionali è bene votarle se si è convinti che siano valide, non per far nascere i governi.
Stessa cosa per la legge elettorale (che è una legge ordinaria da sempre anche se i commentatori della domenica pare lo abbiano appena scoperto). Ora si cerchi di concepire un sistema di voto che abbia come scopo più la valorizzazione della rappresentanza che gli interessi dei partiti: dopo (forse) saremo più comprensivi.