“Matteo Salvini in sala? Nessuno di noi lo ha invitato, non credo avremo modo di incontrarci. Conoscendo la sua capacità di esserci in un momento importante, mi fa piacere. Ma non c’è possibilità di manipolazione, visto che il film non è né pro poliziotti né pro Nap: se Salvini viene per quello, avrà fatto un viaggio a vuoto”. Pierfrancesco Favino è il protagonista di Padrenostro in Concorso alla Mostra di Venezia, cui ha assistito il leader della Lega, regalandosi pure il red carpet con la compagna Francesca Verdini: “Favino mi piace molto come attore, non ho nessuna intenzione di fare manipolazioni. Voglio godermi un film italiano, con attori italiani, con produzione italiana, che racconta una storia italiana, di anni difficili”.
Tra i due c’è ruggine o, almeno, un precedente: Salvini non gradì il monologo tratto da La notte poco prima della foresta di Koltès recitato da Favino al festival di Sanremo nel 2018 e tacciato di essere pro migranti. Il confronto a distanza prosegue con il dramma – dal 24 settembre in sala – diretto da Claudio Noce, che fa i conti con il proprio passato: il padre Alfonso, vicequestore responsabile dei Servizi di sicurezza per il Lazio, nel dicembre del 1976 a Roma fu vittima di un attentato dei Nuclei Armati Proletari (Nap), in cui morì un poliziotto della scorta, Prisco Palumbo, e un terrorista, Martino Zichitella. Nondimeno, Padrenostro “non è una storia privata né un film sugli anni di piombo, volevo restituire lo sguardo di un bambino trafitto e consegnare una lettera a mio padre”, osserva il regista. Un padre che fece della “rimozione un modo per proteggerci”, e che ora vedendo il film con la moglie, nella finzione Barbara Ronchi, ha concesso al figlio “un momento incredibile: ho compiuto un percorso dall’altra parte del rimosso”.
Dopo il Bettino Craxi di Hammamet di Gianni Amelio, un ruolo che spinge nuovamente Favino a confrontarsi con il figlio di un morto che gli piomba in casa: “Mi sono visto figlio e ho riconosciuto nel padre di Claudio il mio. Io sono stato uno di quei bambini dietro la porta, che andava a letto dopo Carosello, che del sequestro Moro ricorda i cartoni animati che non venivano programmati: la nostra generazione è stata sempre messa di lato, per tanti anni ho cercato di far mie quelle tensioni politiche, ma non mi appartengono. Il nostro laicismo ci permette di non avere paura, è un’arma in più, anche di scambio: abbiamo creato Internet, abbiamo generato capacità comunicativa”. Il Favino padre oggi teme il Covid, sebbene la condivisione, da uomo e da artista, rimanga imprescindibile: “Non sono negazionista, mi preoccupa l’individualismo”.
Paure e premure spartite da Greta Thunberg, intervenuta alla Mostra in collegamento durante un intervallo delle lezioni scolastiche: “Il Covid ha colpito tutti, sconfiggere il virus è una priorità, non si possono gestire due crisi insieme: le questioni ambientali, la lotta sul Climate Change è stata messa in pausa, ma dobbiamo capire che è urgente, se vogliamo avere un futuro non si può mollare”. Alla giovanissima attivista è dedicato il documentario di Nathan Grossman I Am Greta (a novembre al cinema), che ne ripercorre l’ascesa, dallo sciopero scolastico solitario fuori dal Parlamento svedese alla creazione del movimento globale Fridays for Future, fino al viaggio in barca a vela nell’Oceano Atlantico per raggiungere New York e parlare all’Onu durante il summit sul clima del 2019.
Se il Concorso fin qua stenta, con la sonora eccezione dell’indiano The Disciple, diretto dal protégé di Alfonso Cuarón, Chaitanya Tamhane, già doppiamente premiato al Lido nel 2014 con l’esordio Court, e quella parziale di Quo vadis, Aida?, con cui la bosniaca Jasmila Žbanić torna sul massacro di Srebrenica da una prospettiva femminile, Venezia prova a tirare il fiato – l’obbligo della mascherina non aiuta – con The Duke, che non compete per il Leone, ma Oltremanica e Oltreoceano farà incetta di premi. Diretto dal Roger Michell di Notting Hill, porta sullo schermo un irresistibile tassista inglese di mezza età, Kempton Bunton, che nel 1961 rubò il ritratto del Duca di Wellington di Goya dalla National Gallery: l’avrebbe restituito a condizione che il governo si impegnasse a favore degli anziani, garantendo a reduci e pensionati il diritto alla televisione gratuita.
Il superlativo protagonista Jim Broadbent – altrettanto brava è Helen Mirren – traccia il parallelo tra quel Dopoguerra e l’odierna pandemia, e oggi si spenderebbe per “gli anziani delle Rsa: il loro trattamento durante il Covid è stato una sciagura, una piaga, e vorrebbero pure metterlo a tacere”. Tutto il mondo è paese.