Quarantadue chilometri e 195 metri, scalzo. L’impresa che Abebe Bikila compie a Roma il 10 settembre 1960 è ricordata nella storia olimpica per quel particolare: la mancanza delle scarpe, che le prime cronache collegano alla “povertà” dell’Africa e che poi verranno trasformate nel mito dell’africano che può correre “senza aver bisogno di niente”. In verità le scarpe, Abebe, le ha lasciate in un chiostro nei pressi del Campidoglio per il timore delle vesciche che avrebbero potuto procurargli, non distanti dalla giacca della tuta e dalla fede nuziale. Sotto i suoi piedi, del resto, ha uno strato calloso che ha incuriosito anche i medici che lo hanno visitato a Roma prima della partenza.
Aveva compiuto da poco 28 anni, Abebe, sposo da sei mesi di Yewedbar cui aveva promesso di tornare a casa con la medaglia d’oro e la giacca con il leone di Giuda cucito sul petto. Prima di quell’Olimpiade aveva corso solo due maratone, una con un tempo interessante: 2 ore, 21 minuti e 23 secondi, poco più di sei minuti sopra il record del mondo del sovietico Sergej Popov, tra gli ovvi favoriti per la medaglia d’oro a Roma, assieme al marocchino Abdesiem Rhadi e al britannico Denis O’ Gorman.
La corsa di fondo, allora, non era ancora dominata dagli atleti africani. Il mito dell’epoca era Emil Zátopek, cecoslovacco, ex operaio della fabbrica di scarpe Bata, che nel 1952 a Helsinki, dopo aver ottenuto l’oro nei 5mila e nei 10mila, decise di correre per la prima volta la maratona: prese il terzo oro, fissò il record olimpico a 2 ore 23 minuti e 4 secondi, e divenne suo malgrado il biglietto da visita dei comunisti trionfatori dello sport.
È nel 1960 però, quel 1960 che sta ridisegnando con le dichiarazioni di indipendenza post coloniale la geografia dell’Africa, che debuttano a Roma i primi atleti del “continente nero”. La kermesse fino ad allora era riservata al solo Sudafrica della segregazione razziale anche se l’Etiopia aveva partecipato con 12 atleti ai Giochi di Melbourne del ’56, ma senza andare a podio. Atleti che nessuno aveva visto e misurato fino a quel momento e che porteranno a casa in tutto tre medaglie, due nella maratona.
Figlio di Demssie, pastore di Jalo che aveva combattuto gli italiani nella guerra di Etiopia, soldato egli stesso, al servizio del Negus Hailé Selassié riportato al trono dagli inglesi nel 1941, Abebe Bikila sente profondamente la sfida “coloniale”. Al secondo chilometro il passato se lo ritrova davanti: di fronte alla sede della Fao, al Circo Massimo, gli appare l’obelisco di Axum sottratto all’Etiopia nel ’37 dalle milizie del Duce. Ci è passato diverse volte lì sotto, assieme al suo allenatore Onni Niskanen, uno svedese nato in Finlandia e arrivato in Etiopia come consigliere militare nel ’46 con il preciso compito di far sviluppare lo sport tra i cadetti.
A differenza delle altre maratone, nella Città Eterna per la prima volta non si corre nei pressi dello stadio dei giochi: i 42 km partono dal Campidoglio, seguono per via Cristoforo Colombo (dove in quell’edizione dei Giochi si registra uno dei primi casi di morti per doping nel ciclismo, il danese Knud Enemark Jensen), il Grande Raccordo Anulare (ancora in via di completamento), infine l’Appia per ritornare verso il centro città. Immaginate i piedi di Abebe (lo fa in maniera mirabile Sylvain Coeher nel suo libro Vincere a Roma, di fresca edizione per 66thand2nd), alle cinque e mezza del pomeriggio di un giorno caldo di settembre, passare dai sampietrini all’asfalto dell’Eur, dall’“autostrada” del Gra ai basoli dell’Appia Antica.
Non c’erano tante informazioni, al tempo. Bikila sa che deve fare attenzione al pettorale numero 69 di Popov, al 73 di O’ Gorman e al 26 di Rhadi. Quei tre numeri se li scrive sulla mano sinistra per tenerli a mente, ma il sudore li cancellerà presto. Quando attorno al trentesimo chilometro si affianca al numero 185 non sa che è quello del marocchino Rhadi, che ha rimesso la maglia con cui aveva gareggiato nei 10mila, ma capisce che quello è il passo che può e deve tenere per arrivare in fondo. Lo scatto arriva poco dopo aver passato la villa di Alberto Sordi, affacciato al terrazzo con alcuni ospiti, sulla fine del viale delle Terme, proprio nei pressi della Fao e dell’obelisco sottratto dai soldati fascisti. Rhadi non ce la fa a tenere il passo, i russi sono troppo dietro: chiude in 2 ore 15 minuti e 16 secondi. Sette minuti e spicci sotto Zatopek, un secondo sotto Popov e il record del mondo. Il suo numero 11 all’arrivo con le mani aperte resta l’immagine di quell’Olimpiade.
La storia ha infine un risvolto amaro. Bikila rivince la maratona 4 anni dopo a Tokyo (è il primo a vincere due maratone olimpiche): questa volta ha le scarpe e rifà il record del mondo in 2 ore, 12 minuti e 12 secondi. Si ritira a metà gara a Messico ’68 (l’oro sarà dell’altro etiope Momo Wode, allenato sempre da Niskanen). L’anno dopo un incidente stradale nei pressi di Addis Abeba lo paralizza dalla vita in giù. Nel 1972 partecipa ai Giochi paralimpici di Heidelberg: tiro con l’arco. Muore nel 1973, a 41 anni: emorragia cerebrale. In quell’anno Emil Zatopek è ancora al lavoro nelle miniere di uranio di Jachymo, punito dal regime per aver appoggiato la Primavera di Praga.