“Se un amico mi accoglie dicendomi ‘uelà sporco ebreo, come te la passi’ non mi offendo di certo. Ma se me lo gridano al raduno di Pontida assume ben altro significato”. Lo scrive Gad Lerner su FQ Millennium, il mensile diretto da Peter Gomez in edicola da domani con un numero sugli eccessi del politicamente corretto. Un numero ricco di opinioni contrapposte e approfondimenti sul tema tornato alla ribalta, fra l’altro, con il caso dei meme sull’abbronzatura di Di Maio. Ma il campo è ben più vasto. Perché dal linguaggio pubblico sono scomparse, per esempio, le case popolari (in favore del più neutro “edilizia residenziale pubblica”) e i poveri (diventati “meno abbienti”)? Davvero correggere “Gesù Bambino” in “Perù Bambino”, come accaduto in una scuola primaria friulana, è un modo per non offendere bimbi e famiglie di altri credi? Siamo sicuri che “migrante” sia una condizione più confortevole di “immigrato”? Siamo arrivati al punto in cui “se faccio una battuta sugli alpini gay, si offendono sia gli alpini che i gay”, lamenta il comico Paolo Rossi, mentre le piattaforme online cancellano film e tagliano scene di popolari serie tv, come Friends e Scrubs, diventate improvvisamente “scorrette”.
Qual è allora il limite oltre il quale la tutela di gruppi vittime di stereotipi diventa censura e “pensiero unico”, anzi, si trasforma in un “cambiamento culturale forzato e fittizio”, sostiene nel suo intervento Giordano Bruno Guerri?
Oppure è come la mascherina anti-Covid – è la tesi di Furio Colombo – che può dare fastidio, ma ci protegge da guai ben più gravi come razzismo e intolleranza?
Il tema è quanto mai complicato.
Come ci ricorda Lerner, l’impatto di certe parole cambia secondo chi le pronuncia e chi le subisce.
Nessuno in un primo momento, neppure nella sinistra più attenta al politically correct, si è scandalizzato per le immagini del ministro Di Maio, tornato molto abbronzato dalle vacanze estive, raffigurato in scene di Via col Vento o fra i migranti sui barconi. Quelle immagini ironiche, condivise dal ministro degli Esteri sui social, hanno avuto ben altro effetto sulla comunità afroitaliana. Su FQ Millennium lo spiega la giovane e battagliera scrittrice italo-ghanese Djarah Kan, che ribalta la questione: perché “non sono mai le persone oggetto di scherno a decidere cosa è accettabile e cosa no, chi può essere umiliato, quanto e come?”.
La battaglia contro il politicamente corretto appare di destra, dalle sparate di Donald Trump ai quotidiani che qui da noi si beano della parola “negro” (ormai impronunciabile negli Usa) sparata in prima pagina. L’eccessivo controllo del linguaggio comincia a stare stretto anche a sinistra, si legge nel recente appello di 150 progressisti, partito proprio dagli Stati Uniti.
“La logica dell’eufemismo ha preso la mano”, rimarca sul nostro mensile Paolo Flores d’Arcais, e rischia di diventare un diversivo per non affrontare i problemi reali (e sociali) sottostanti.
Così lo scrittore Roberto Prunetti – che ha sperimentato il razzismo anti-italiano quando faceva il lavapiatti a Londra – gioca a cambiare prospettiva: e se applicassimo il politicamente scorretto a bersagli diversi dal solito, cominciando a chiamare i ricchi, per lo più “vecchi maschi bianchi”, semplicemente “sfruttatori”?