Felice Casson in Parlamento è stato dal 2006 al 2018, da indipendente di centrosinistra. Tre legislature in cui, ricorda bene, “l’Ulivo e il Pd hanno più volte proposto il taglio dei parlamentari”, in alcuni casi in maniera identica a quella per cui si voterà nel referendum di domenica prossima. “Per questo sono rimasto sorpreso nel vedere certi No alla riforma”, ci dice oggi Casson annunciando il suo Sì.
Felice Casson, il taglio dei parlamentari è un tema identitario del Pd?
Ogni volta che sono stato eletto in Parlamento il centrosinistra aveva nel programma la riduzione degli eletti. Nel 2008 presentammo una proposta di legge identica a quella attuale: 400 deputati e 200 senatori.
Il ddl a firma Zanda e Finocchiaro. Una loro iniziativa o la linea del partito?
Facevo parte dell’ufficio di presidenza del Pd al Senato. Ci fu una discussione che portò tutto l’ufficio a firmare quella proposta come atto formale e politico che testimoniava che quella era la posizione ufficiale del Pd. Per questo sono rimasto sbalordito dalla virata radicale di qualcuno.
Come si spiega i No da sinistra?
Da una parte c’è il No di chi non sopporta il M5S ed attribuisce a loro, sbagliando, la matrice di questa riforma. Come ho detto, il taglio è invece un tema che da sempre appartiene alla sinistra. Ma per odio nei confronti dei grillini c’è chi farebbe qualunque cosa. E poi c’è un No che serve come manovra occulta contro il governo.
Un No politico?
Nell’accezione negativa del termine: parliamo di un No partitico, di posizionamento, una politica politicante.
Sul merito della riforma: non vede rischi democratici nel taglio?
Assolutamente no. Che sia un attacco alla Costituzione è un’accusa del tutto inventata, anche perché la Carta non prevedeva affatto l’attuale numero di eletti. Ma è debole anche la critica di chi si preoccupa della rappresentanza: dire che i deputati saranno 400 e dunque avremo un rapporto tra eletti ed elettori tra i più bassi in Europa è un imbroglio. Gli eletti saranno 600 e la percentuale sarà più che accettabile.
L’eletto dovrebbe avere un forte legame col collegio.
Quando ero senatore giravo il mio territorio, nel Veneto, e tanti mi dicevano che erano abituati a vedere i politici solo in campagna elettorale, poi sparivano. Il problema non è quanti eletti ci sono in quella zona, ma scegliere persone che abbiano voglia di essere presenti tanto a Roma quanto nei collegi.
In Senato si fece l’idea che gli eletti fossero troppi?
Arrivai alla politica dalla magistratura e rimasi stupito. Spesso in Commissione facevamo fatica ad avere il numero legale. Una buona metà dei parlamentari era come se non ci fosse, nel senso che non produceva testi, non interveniva, si limitava ad alzare la mano o rispondere ai diktat dei capibastone.
Basta il taglio per rendere più efficienti le Camere?
Se vincesse il No le riforme si fermerebbero, sarebbe un alibi forte per lasciare tutto immutato. Il Sì costringerebbe quantomeno a una buona riforma elettorale e a rivedere i regolamenti parlamentari. Sarebbe un modo per togliere le liste bloccate e tornare alle preferenze, per esempio.
Non si poteva pensare a una riforma più ampia?
Quando si tocca la Costituzione è meglio farlo puntualmente, perché l’insieme della Carta è estremamente positivo. Alcuni punti che possono essere modificati, come il numero degli eletti o l’abolizione del Cnel, ma è più semplice intervenire su singoli temi che fare un calderone in cui si mescolano proposte condivisibili e altre che non lo sono, come fu nel 2016.