Mentre l’aereo del premier Benjamin Netanyahu toccava la pista della base aerea Andrews, vicino Washington, per la firma degli accordi di normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti officiata dal presidente Donald Trump alla Casa Bianca, Israele toccava il numero massimo dei contagi giornalieri. La situazione in Terra Santa è davvero grave, gli ospedali sono al completo da giorni per la seconda ondata del virus, le scuole sono state riaperte e richiuse, fermi tutti i commerci. E da venerdì – che dà il via in Israele alla festa del capodanno ebraico di Rosh Hashana – inizieranno tre settimane di lockdown. Solo quando il Paese ha toccato il più alto tasso di contagio mondiale, in relazione al numero di abitanti, il governo ha dato il via alle misure richieste da settimane dallo “zar” antivirus – il dottor Ronni Gamzu – per arginare la pandemia, che si è ripresentata puntuale come previsto dagli scienziati. Nel lessico del governo era stata data prima sconfitta, poi debellata e infine arginata quando i casi invece si moltiplicavano.
Ci sono due ordini di problemi alle spalle di questa seconda ondata. Il primo riguarda certamente i religiosi, un buon 30% degli israeliani, fedeli alla loro visione della vita secondo la quale il virus è una maledizione di dio che colpisce solo i miscredenti. In piena prima ondata l’allora ministro della Salute, il religioso Yaakov Litzman violava per primo le indicazioni che venivano dal suo ministero, partecipando a cerimonie religiose, bagni rituali, meeting nelle sinagoghe. In una riunione del governo contagiò altri 11 ministri. Litzman, ora ministro dell’Edilizia, ha così motivato le sue dimissioni: “La politica del governo impedirà a centinaia di migliaia di ebrei andare pregare nelle sinagoghe”. Un’eresia.
Le nuove misure previste dal governo – massimo 500 metri di distanza da casa, uscite solo per supermercato e farmacie, distanziamento sociale – sono piene di eccezioni per i “religiosi”: possibili incontri fino a 20 persone, nessuna limitazione nella socialità familiare. Esercito e polizia stabiliranno posti di blocco per controllare che gli spostamenti siano solo quelli “autorizzati”, ma sarà davvero difficile. È un mese di festa in Israele e sono una consuetudine – come avviene anche in Italia nel periodo natalizio – il convivio, le cene familiari, le visite a parenti e amici vicini e lontani. C’è poi il fronte del commercio, del turismo, della ristorazione. La El Al ha tutti i suoi aerei a terra, nella grande hall del Ben Gurion Airport si sentono solo i passi dei poliziotti in servizio. Mai, nemmeno durante le numerose guerre che ha combattuto, Israele è stato così “deserto”: alberghi chiusi, ristoranti sbarrati, tavoli e sedie accatastati fuori da bar e pub, deserte le strade dello shopping di Gerusalemme e Tel Aviv, serrande calate e parcheggi vuoti nei grandi mall.
“La situazione economica è grave quanto quella sanitaria”, spiega Roee Cohen, presidente di Lahav, la Camera israeliana delle organizzazioni indipendenti e delle imprese; 30.000 hanno già chiuso afferma Cohen, “a fine anno saranno 80.000 e forse più, quando in un anno normale le chiusure non arrivano a 50.000”. I proprietari di piccole imprese e gli operatori indipendenti minacciano la disobbedienza civile e di tenere le attività aperte. “Ci stiamo avvicinando all’anarchia – sostiene Cohen – un nuovo periodo di chiusura è una condanna a morte”. E conclude: “Il governo ha perso da tempo legittimità agli occhi dei cittadini”.
Israele appare sull’orlo della disobbedienza civile di massa. Era uscito dalla prima ondata di coronavirus con un numero contenuto di contagi e vittime, ma pagando un prezzo sociale ed economico elevato a causa del blocco. Il governo ha poi però dichiarato troppo rapidamente la vittoria – “esci e festeggia”, aveva esortato il premier – senza una strategia per ripartire. Ora, con il numero di nuovi casi di virus a quota 4.000 al giorno il fallimento del governo appare più evidente. La disfatta nella lotta al coronavirus si è poi intrecciata con una grave crisi politica e costituzionale, il cui esito è una diffusa sfiducia in Netanyahu tra larghe fasce dell’opinione pubblica. Lo dimostrano le manifestazioni settimanali che proseguono da tre mesi davanti alla residenza del premier in Balfour Street a Gerusalemme, per chiedere le sue dimissioni. Il clima di generalizzata sfiducia mina la solidarietà tra le varie componenti della società israeliana. Il motto del momento sembra essere: “Ognuno deve poter fare quel che vuole”.
(Aggiornato alle ore 8.03 del 18 settembre 2020)