Incuteva soggezione, Rossana Rossanda, che ci appariva perfino altera. Mai superba però, perché sapevamo che era lei stessa la prima su cui riversava la sua severità. E sapevamo anche la tenerezza che riservava ai fragili, agli umili, e in special modo alle compagne con cui sapeva instaurare un’intima complicità femminile: “Il dubbio di essere fuggita dal diventare grande, cioè moglie e madre, si affacciava e me ne ritraevo. In fin dei conti era più facile stare sulla scena pubblica”, ha confidato nella sua autobiografia, La ragazza del secolo scorso.
È morta una comunista che non ha mai smesso di esserlo, e che pure nessuno oserebbe liquidare come un reperto del passato. Perché il suo comunismo, per quanto valore attribuisse al partito “strumento poderoso e delicato”, “quello che Occhetto e D’Alema avrebbero sepolto prima che spirasse”, restava un comunismo ribelle, sfidava il giogo dei regimi sovietici, riconosceva il valore del dissenso. Ribelle dunque all’ortodossia del “socialismo reale”, ma per uscirne da sinistra e non dismettere l’impegno per la redenzione degli sfruttati, la liberazione della donna, i diritti da garantire anche ai “peggiori”.
Ho conosciuto da vicino il garantismo di sinistra di Rossana Rossanda. Dapprima quando anch’essa si schierò, come noi di “Lotta Continua”, nel cosiddetto partito della trattativa durante il sequestro Moro. E poi quando instaurò un dialogo con quei detenuti politici, da cui la dividevano i misfatti compiuti, ma non l’“album di famiglia”. E, anche nel dialogo con Luigi Ferrajoli e Magistratura Democratica, andava ricercando una soluzione politica per il superamento degli anni di piombo, non bastando quella giudiziaria.
Partigiana di città con il nome di battaglia “Miranda”, da quella esperienza ha tratto insegnamenti personali e uno sguardo lungo sulla storia. “Sono noiosa e allarmata”, spiegava, “perché non ho ballato neppure una sola estate, non ho avuto una giovinezza vera. Che roba è avere quindici anni nel 1939 e ventuno nel 1945?”. E quanto all’eredità comunista del partito nuovo, nel dopoguerra, autorizzato da Togliatti a sentirsi distanti da “quelli dell’est”: “C’erano – ammette Rossanda – anzi erano fratelli, ma insomma il mio vero fratello stava a Sesto o alla Pirelli”. Di più: “Senza i partiti comunisti, tutta l’Europa sarebbe diventata al più come la Grecia. Piaccia o non piaccia, dove non era al potere il movimento comunista fu una potente spinta democratizzante, e non per un’eterogenesi dei fini”. Difficile darle torto.
Quando lei e il gruppo del manifesto furono sottoposti, nel 1969, all’umiliante pratica della radiazione dal Pci (non espulsione, si badi, come dire: se vi pentite sarete riabilitati), per primi sperimentarono una particolare forma di denigrazione. Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Lucio Magri, Luigi Pintor apparivano talmente belli, eleganti, raffinati nell’eloquio da indurre i loro avversari a offrirli in pasto al pubblico come intellettuali borghesi rammolliti, antesignani dei “radical chic” (uno degli epiteti più idioti di cui si nutra la lotta politica). Ma avevano a che fare con degli ossi duri, oltre che con un inedito, generalizzato movimento di protesta. Diedero vita, fra poco saranno cinquant’anni, a un quotidiano, il manifesto, bello e rigoroso. Attrassero intelligenze cosmopolite ed eretiche, come lo stesso ebreo polacco Karol, sfuggito alla Shoah arruolandosi da adolescente nell’Armata rossa, che di Rossana diventerà l’amatissimo compagno. E pur nella ricorrente litigiosità, fra loro non verrà mai meno un senso di comunione fraterna. Quello per cui Rossanda accompagnò l’ultimo viaggio di Lucio Magri in Svizzera verso la morte assistita.
Bussavo con timidezza alla sua stanza di lavoro in via Tomacelli, nei primi anni Ottanta, e mi trovavo di fronte quella che era già un’icona della sinistra. Era stata lei, nel 1977 a incoraggiare il suo amico Jean-Paul Sartre a incontrare noi di “Lotta Continua” quando imperversava la repressione del movimento dei non garantiti. Il filo di perle sul golfino, la candida acconciatura ben curata, segni mai dissimulati della sua acquisita milanesità borghese e della sua ricerca di bellezza, non stonavano affatto con la competenza rivelata su una vertenza di fabbrica o sulle vessazioni in un carcere speciale.
Il suo comunismo è un Messia collettivo che come tale le sopravvive. Un abbraccio affettuoso ai compagni del manifesto.