Disperati per il Covid che ha causato perdite per centinaia di milioni, e adesso ha pure messo nel mirino il Genoa con un vero e proprio focolaio. Furiosi col governo che non permette di riaprire gli stadi. Pronti a tutto pur di salvare la baracca, persino a vendersi un pezzettino di campionato ai fondi stranieri. Poveri presidenti della Serie A. Ma poveri per davvero: le società non hanno più un euro in cassa. Tanto che la Federcalcio ha concesso di non pagare gli stipendi per almeno un altro mese e mezzo, sperando in tempi migliori.
La Lega calcio ieri si è riunita per decidere che fare con l’emergenza Genoa e rimediare a un suo errore (una norma generale andava stabilita prima dell’inizio del campionato, non dopo). È passata la linea dura, con un compromesso: la Serie A sposa la direttiva Uefa per cui si deve giocare sempre, basta un minimo di 13 titolari, altrimenti sconfitta a tavolino. Con un’eccezione: in caso di 10 infetti in una settimana, il club potrà chiedere il rinvio una sola volta in tutta la stagione (perciò non si gioca Torino-Genoa). Bisognerà vedere, in caso non interverranno altri stop di istituzioni o Asl, se davvero la Lega avrà la forza di imporre di giocare a squadre decimate dal virus (domenica c’è Juve-Napoli e ancora non si sanno le reali condizioni degli azzurri, di nuovo sottoposti a tampone).
Nei giorni scorsi, però, i patron avevano incassato un altro provvedimento, più prezioso. Mercoledì e scadeva il termine per saldare le mensilità di giugno e luglio, pena sanzioni in classifica. Quasi nessuno l’ha fatto. Una scadenza che di solito spaventava la Serie C (dove le penalizzazioni sono all’ordine del giorno), non la A, in grado di onorare i suoi impegni con tutti i soldi dei diritti tv. Stavolta è diverso: il calcio italiano, già messo male di suo, è in ginocchio per il Coronavirus, dopo le perdite del lockdown ha dovuto rinunciare pure alle campagne abbonamenti, che in questo periodo portavano liquidità in cassa. Le società sono davvero al verde, molto più di quanto dica l’ostentata normalità tra partite e mercato. Così la Serie A ha chiesto e ottenuto la deroga.
Nel silenzio generale la Figc del presidente Gravina ha posticipato al 16 novembre il termine per saldare gli arretrati (poi potranno essere sottoscritti “accordi privati” con i tesserati per rinviare ulteriormente fino a febbraio). Vale per tutte le categorie, e soprattutto per la Serie A, visto che sono esclusi i calciatori sotto i 50mila euro, cioè la maggior parte della Serie C. La richiesta infatti veniva proprio dalle big, che di stipendi in un mese possono spendere anche 15-20 milioni. Nessuno ha detto nulla, nemmeno il sindacato dei calciatori, che non voterà nel prossimo consiglio federale (sperando di strappare uno stipendio in più, almeno in Serie B). Si allargano le maglie di paletti fin qui considerati imprescindibili per la tenuta del sistema, ma non c’era molto da fare: senza soldi, l’alternativa sarebbe stata una strage di penalizzazioni. Pare che 18 squadre su 20 fossero a rischio.
Se neppure l’AssoCalciatori protesta significa che la situazione è davvero grave. Ed è la stessa ragione per cui in Lega avanza il progetto di fondare una “media company” della Serie A e venderne il 10% ai private equity: il presidente Dal Pino e l’ad De Siervo lo fanno per rilanciare il pallone e rivoluzionare la governance, la maggior parte dei patron solo per salvare i bilanci. Le resistenze non mancano, i dubbi legali nemmeno. Quei soldi – 1,5 miliardi – comunque non arriverebbero prima di inizio 2021 e così l’idea migliore che è venuta è stata quella di spostare di un mese il pagamento degli stipendi. I club sperano per novembre di vedere la luce del tunnel imboccato a inizio epidemia. A ottobre arriveranno i soldi di Sky e Dazn della seconda rata della stagione 2020/2021, un centinaio di milioni. Magari riapriranno gli stadi, torneranno gli incassi dei tifosi. E poi ci sono le pendenze per i diritti tv non pagati dello scorso campionato, che prima o poi dovrebbero entrare. Intanto si continua a giocare. Magari pure gratis.