Catania, melonizzata solo pochi mesi fa, abbraccia stamane la sua Giorgia che a sua volta abbraccia Matteo intento a spezzare le catene incatenandosi alla sua gente al grido di “libertà”. Per una serie di sfortunate circostanze in catene, per ora solo in senso figurato, è intanto finito il sindaco della città, Salvo Pogliese, a cui i giudici hanno rifilato questa estate una condanna di 4 anni e tre mesi per peculato.
Pogliese, golden boy di Fratelli d’Italia, era a un bivio: dimettersi o resistere. “Mica mi chiamo Francesco Schettino? Non abbandono la barca che affonda, non mi dimetto, voglio troppo bene a questa città che mi sta tributando a ogni ora del giorno segnali di affetto incredibili”. Ardimentoso e tenace, ancorché dimissionato dalla legge Severino e dunque fuori dal municipio, Pogliese aspetta che l’appello gli conceda l’innocenza che avanza e finalmente lo assolva. Catania, abituata a ben altre disgrazie, accetta di non avere il sindaco e Fratelli d’Italia di consolare il suo amato condannato, il suo portabandiera siciliano, il giovane di razza cresciuto nel Fronte della gioventù e che dopo una piccola fuitina con Forza Italia è tornato nella casa paterna, tra la fiamma ardente della Meloni.
Catania è dunque la perfetta città delle catene. La location dove il centrodestra, riunito nel nome di Matteo, si stringe e fa insieme forza per spezzarle, e liberare il capo leghista dall’ “ingiusto” processo per la vicenda della nave Gregoretti. “Processate anche me” è scritto e stampato sulle magliette dei fan chiamati a raccolta in quella che però non deve apparire come un’adunata anti giudici: “Noi non facciamo pressioni al tribunale, non ci permettiamo”, spiega Salvini. Lui non accerchia il palazzo ma promuove l’isola: “Siamo qui per parlare di cultura, di arte, di bellezza”. Matteo stamane si presenterà alla corte ma non profferirà parola: “Non parlerò”. Chinerà il capo e dimostrerà la sua innocenza col silenzio. Una Giovanna d’Arco in pantaloni, new edition di questa emergente strategia del sorriso, “contro la cattiveria di coloro che si definiscono buoni”. Se i buoni sono i cattivi, lui – l’odiatore – è pronto a cambiare seggiola e mostrarsi all’Italia col volto rinnovato, più piacione, più comprensivo, più in linea col lifestyle che ha fatto grande chi solo ieri sembrava piccolo come Giuseppe Conte.
Tre giorni, nove animati dibattiti, molta identità e cultura (Borgonzoni: non ce l’abbiamo con Netflix ma con ciò che vorrebbe farla diventare il ministro Franceschini, una piattaforma dell’élite) una pizza per la fanteria leghista (in verità duecento pizze per duecento giovani leghisti isolani, la next generation del movimento) e una cena per i grandi (500 invitati ieri sera a consegnare nelle mani di Salvini la testimonianza d’affetto e anche di gratitudine).
In effetti qualche problema di assembramento che però la nuova e severa organizzazione gestirà con efficienza.
La rinuncia più grande e più sofferta del capo, quella dei selfie post comizio, la lunga fila dei flash sudaticci ma emozionanti, si aggiunge alla perfetta mascherinizzazione in omaggio al rito anti Covid.
La Lega sta cambiando, invece di urlare sibila e in terra di Sicilia, dove l’aspetta l’assonnato e pingue ceto medio politico rimasto senza padrini, la prova è quella di federare gli autonomisti, renderli satelliti al Carroccio. Operazione che stenta ad andare in porto per l’opposizione del governatore Nello Musumeci.
Salvini ha bisogno di garantirsi l’unità del suo gruppo (il veneto Zaia, che dà i maggiori pensieri, ha dato forfait alla trasferta siciliana) e per difendere la leadership del centrodestra. E non è cosa semplice anche perché l’insidia della Meloni è quotidiana e non smette di dare ansia.
Cosicché oggi lei è qua, incatenata insieme a lui, ma si sa che ha la testa di là.