L’idea me l’ha data una copertina dell’Internazionale. Una fila stilizzata di studenti che entra dentro un computer. Titolo: “Come riavviare l’università”. Lungo sottotitolo: “È il momento di decidere se l’istruzione a distanza è un modo per rendere l’università più accessibile a tutti o solo un regalo alle aziende tecnologiche”. È una questione che mi intriga da diversi mesi. Da quando ho capito che l’insegnamento a distanza inaugurato a marzo non sarebbe stato un episodio, ma che sarebbe continuato ancora a lungo. Anzi, che il lockdown ci stava portando, senza alcun progetto o strategia alle spalle, verso una nuova idea di università. La tipica serendipity. A questo punto devo però fare un atto di fede: considero l’aula universitaria uno dei luoghi più belli e poetici in cui sia dato vivere. Decine o centinaia di occhi che ti scrutano, giovani menti che attingono ai tuoi studi, alla tua stessa esperienza di vita, le tue concatenazioni logiche che guidano chi ti sta davanti tra passioni, ragione e conoscenza.
Eppure… eppure è possibile immaginare una università viva anche rinunciando al valore della fisicità, al piacere di interagire con gli occhi in ogni direzione. È anzi doveroso farlo, se solo si intuisce che forse qualcosa sta cambiando per sempre. Penso con raccapriccio a marzo, a quando ci si diceva che la cosa migliore era registrare le lezioni e depositarle come un pacchetto in qualche sito in cui giovani sconosciuti potessero trovarle. A quando si veniva esortati a tenere lezioni di venti-trenta minuti “perché sul video i ragazzi di più non resistono”. Sto vedendo invece che resistono eccome, che a volte bisogna sforare l’ora e mezzo accademica per effetto delle loro domande. Che il problema è rendere le lezioni dei momenti ad alta intensità narrativa. Trasformarli, ove possibile, in storie. Da raccontare come faceva cinquant’anni fa la radio. Riscoprendo, come ho qui scritto prima dell’estate, il “c’era una volta” delle favole. Episodi, personaggi, da cui fare fluire nozioni e teoria. Capaci di sollecitare la fantasia, ed evitare una università senza sangue, piatta, dura da reggere nella società dell’immagine.
Confesso. Sono certo aiutato dalla materia che ho appena introdotto quest’anno all’Università Statale di Milano: geopolitica e criminalità organizzata. Un tema che allinea Paesi, Stati, leader politici, rivoluzioni, drammi, guerre, diritti, giustizia, spaziando dall’America latina all’Azerbaigian, dalla Germania alla Cina. Una materia che con le slides, le immagini e gli spazi immensi che suggerisce, ricolloca tutto in un’altra prospettiva, altro che “storie italiane”.
Gli studenti intervengono dalle loro stanze, che le prove orali illuminano di una luce calda, mostrandoli nelle cucine, nelle stanze da letto, nei salotti, i quadri dei genitori, i poster di Marilyn o di Mandela, il cane sul divano, addirittura il figlioletto in culla. E quale aula ti consentirà mai questo livello di intimità? Così ho osato, con un pizzico di ritrosia, una innovazione. Dare a ogni lezione una musica di sottofondo. Se stiamo tutti in una nostra stanza, è stato il ragionamento, condividiamo allora il calore di uno stesso suono. Concediamoci (lo ammetto: scegliendo io come un dittatore) il piacere di una musica alle spalle.
Così apro le mie lezioni annunciando che cosa sentiremo: “Oggi Ludovico Einaudi, Le onde”; “Oggi Benedetti Michelangeli, Beethoven”. Come è andata? Prova superata. Mercoledì proporrò un bellissimo cd di un artista di strada parigino incontrato 25 anni fa. Messaggio: evitiamo di farci dominare (e inaridire) da queste trasformazioni epocali non volute, pieghiamole invece all’idea di una università viva. E sfruttiamone tutte le opportunità impreviste. Anche per non perdere il piacere della conquista. Si studia anche per questo, in fondo.