Italia in rosso. Siamo abituati a sentircelo dire. Questa volta però si parla di popolazione. L’Istat ha pubblicato il bilancio demografico nazionale riferito al 2019. La popolazione è in calo di circa 200.000 unità, e la natalità del 5%. I giornali hanno dato la notizia limitandosi a rilanciarla in tono allarmistico con titoli come “Siamo il paese delle culle vuote” o “l’allarme dell’Istat: culle sempre più vuote”, mancando l’opportunità di affrontare un tema enorme e complesso che non si può e non si vuole trattare in modo approfondito e serio.
In primo luogo bisogna chiedersi perché è un problema la riduzione della popolazione italiana e della natalità. Di per sé l’Italia è un paese sovrappopolato. Secondo il Global Footprint Network gli italiani vivono ben oltre la biocapacità del proprio territorio e, in alcune zone, la densità abitativa è altissima, con i problemi che questo comporta, in termini di inquinamento e di qualità di vita. Vero è che l’impronta ecologica di un paese è dato dai consumi medi di ogni abitante per il numero di abitanti. Quindi se fossimo un popolo molto più morigerato o che impiega meglio le risorse potremmo essere in equilibrio con il territorio. Per la legge dei ritorni decrescenti però migliorare l’efficienza dei consumi oltre un certo limite non è praticamente possibile e prima o poi il numero della popolazione sostenibile giungerà a saturazione. Chiedersi qual è il numero di abitanti che un territorio può sostentare e a quale livello di consumi è una domanda di buon senso ma difficile da porre in un paradigma culturale chiamato consumismo che pone come obiettivo la crescita infinita dei consumi materiali e, indirettamente, della popolazione.
Gli esseri umani stanno impattando su alcuni dei più importanti cicli bio-geo-fisici dell’ecosistema terreste, tra cui l’estinzione di massa delle specie, il ciclo dell’azoto, del fosforo e del carbonio (immettendo enormi quantità di CO2). Tutti questi problemi sono legati alla crescita esponenziale della popolazione umana. Diventa importante quindi, con politiche di educazione e non di coercizione, far capire il problema, soprattutto nelle zone più povere del mondo dove il tasso di natalità è più alto.
Chi segnala allarmato il calo della natalità in Italia, giustamente, è preoccupato per l’invecchiamento della popolazione. Una popolazione più anziana è più fragile, meno dinamica, ha bisogno di più cure e servizi appositi. Si intravedono le fosche ombre della rottura del patto generazionale. La popolazione attiva si prende cura e sostenta i bambini e gli anziani, ma questo è possibile solo se numericamente la popolazione attiva è sufficientemente ampia. Oggi l’aspettativa di vita si allunga progressivamente e gli over 65 sono il 23% della popolazione, con proiezioni al 2065 del 33%. Nessuno auspica un rialzo della mortalità, ma questo implica uno sforzo collettivo di immaginare e realizzare un nuovo patto generazionale. Pensare che la popolazione debba crescere per mantenere vivo il sistema pensionistico è folle e anacronistico, ma nei prossimi anni l’invecchiamento della popolazione sarà un problema enorme.
Il primo passo di questo processo deve essere innanzitutto culturale, il grande rimosso della nostra società è la morte. Un tema forse troppo ardito da affrontare, che causa repulsione e sgomento, ma comunque ineluttabile destino dell’uomo. Nelle cellule stesse esiste un meccanismo di autodistruzione che porta alla malattia e alla morte: l’apoptosi. Questo perché in biologia vita e morte sono indissolubilmente legate in un ciclo di multiforme variabilità. In direzione contraria vanno alcuni predicatori della cultura consumistica che non accetta limiti e soprattutto il limite ultimo. Peter Thiel fondatore di Paypal ha definito la morte come un problema che va risolto e un miliardario della Silicon Valley ha stanziato un premio per chi riuscirà a far superare il limite teorico dei 120 anni della vita umana. Non posso non pensare a Lo sciopero della morte di Saramago, opera in cui lo scrittore portoghese immagina una nazione dove non muore più nessuno con effetti dannosi inaspettati per tutti.
Certamente sono temi difficili ma che se non vengono portati alla luce del dibattito pubblico rischieranno di trovarci impreparati, senza gli strumenti culturali per affrontare uno dei grandi problemi che il futuro ci riserva.
*Fridays For Future Italia