Non ho mai saputo se con Moravia o Dacia Maraini o Siciliano vi sia stato un legame di confidenza, non ce lo siamo mai detto. Nel nostro rapporto prevaleva da un lato una vibrazione politica che rendeva molto alto e teso il reciproco interesse di eventi e parole. Dall’altro faceva da guida la celebrità pubblica di Pasolini, tra Comunisti e Radicali, tra cinema e romanzo, tra comizio e dichiarazione, fra arresto e trionfo mondano.
Due giorni prima dell’intervista era arrivata la chiamata telefonica, non un amico, un tecnico della produzione, che ci avvisava che nel pomeriggio alle tre un gruppo di poche persone avrebbe visto il primo montaggio del film. (…) Avremmo imparato che la dimensione feroce del fascismo era diversa persino dalle storie e dalle esaltazioni della Resistenza. Avremmo capito ciò che Pasolini ha visto nitido e terribile: uno spazio al di là della storia dove il male ha dimensioni che sono diverse dalla narrazione del male, un calmo eccesso di sadico approfittare dei corpi per arrivare, attraverso l’estrema umiliazione, a una misura ultima, quasi spirituale di malvagità, come una santità rovesciata. (…) Ricordo un senso di smarrimento del piccolo pubblico (sei o sette persone tra cui Moravia) di quella domenica pomeriggio nella minuscola, mal ridotta sala di proiezione. C’era qualcosa di clandestino e qualcosa di intollerabile, qualcosa di nascosto, come dire che cose così non sono consentite, non sono possibili, e non saranno viste altre volte. Una cosa sai di non poter promettere: “Non accadrà mai più”. (…) Uscendo dalla sala di proiezione de Le 120 giornate di Sodoma, nessuno di noi parlava. Nessuno di noi si è fermato per commentare o discutere. Il senso del tempo reale e della attualità degli eventi rendeva impossibile la conversazione e lo scambio di opinioni. Quel film aveva il potere tremendo di imporre una verità che conoscevi bene e avevi smesso di raccontare. Era un documento e una prova, non un racconto. Ma aveva anche la forza tremenda della profezia. (…)
Nel periodo dell’intervista vedevo Pasolini abbastanza spesso. Una delle ragioni era il rapporto frequente con Moravia, Dacia Maraini, Enzo Siciliano, i suoi veri amici del “mondo di qua”, quando “non scendeva all’inferno” (espressione che ha usato nella mia intervista). Certo, aveva zone di protezione create dall’affetto che lui sapeva generare (un misto di intensa simpatia ricevuta e di empatia donata). Ma nel mondo delle lettere, che allora era anche società romana, società italiana, erano loro (Moravia, Maraini, Siciliano) che arrivavano con Pasolini. O ti portavano da Pasolini. Oppure Pasolini li raggiungeva, e dunque raggiungeva anche noi.
Al mare, per esempio. Le case erano quelle di Alberto e Dacia oppure la nostra, di Alice e mia, tutte e due a Sabaudia. Se Pasolini veniva senza preavvertire, e Moravia e Dacia non c’erano, Pasolini veniva da noi, e doveva accettare due rituali, l’ammirazione devota della ragazza che in quel periodo ci aiutava con la nostra bambina piccolissima (la ragazza era una lettrice appassionata di letteratura). E la bambina, che riusciva già ad arrampicarsi, andava a sistemarsi sulle ginocchia di Pasolini, forse perché le piaceva il tono di voce sempre uguale, venato di una certa dolcezza (persino nel colmo di un disaccordo, tipo i dibattiti sul progresso), sempre sereno (parlo di tono) di questo visitatore a cui era ormai abituata, e a cui evidentemente dava la preferenza. Non erano giorni facili. Ma prima di narrare, vorrei provare a dire che amicizia c’era tra me e Pasolini, visto che io ero “avanguardia” e “Gruppo 63” nel mondo letterario di allora, e Pasolini sembrava essere (o poteva essere descritto come) un tradizionalista legato ai tempi e ai costumi della vita pre-industriale.
Non gli interessava il padrone buono. E non aveva illusioni sul capitalismo. Gli interessava che tu fossi padrone di te stesso. E non vedeva il benessere come percorso del grande cambiamento. Temeva invece il distacco delle persone da se stesse. Nel linguaggio della sua conversazione essere te stesso voleva dire non arrendersi, non piegarsi, non rinunciare e adattarsi educatamente ai tempi gentili e insidiosi, dove puoi essere trasportato in un mondo che non conosci e non ti riguarda, e, nonostante la finzione, non si occupa affatto di te ma ti abbandona appena possibile dopo averti usato. (…) Come arrivavamo a questo conversare intenso e quieto intorno a un grande spazio vuoto (la nostra differenza sulla modernità, il progresso, lo sperimentalismo, in letteratura e nella vita), le volte in cui eravamo soli con lui, se Moravia e Dacia e Siciliano tardavano o non arrivavano? (…)
Il nostro appuntamento era stato facile. Era bastata una telefonata due giorni prima. L’occasione era l’uscita del primo numero di Tuttolibri, primo giornale dedicato a libri e letteratura in Italia e legato al quotidiano La Stampa. (…) Il giorno (il pomeriggio) della nostra intervista Pasolini era già seduto (nella sua casa all’Eur) in fondo a una grande stanza, dietro un tavolo che mi sembrava piccolo, pensando che doveva esserci posto per scrivere versi, cominciare un articolo, rivedere un testo già pubblicato, annotare un copione, buttare giù gli appunti per un nuovo lavoro o una risposta o un improvviso intervento. Pasolini mi sembrava anche diverso, più concentrato e serio, più lontano, come andare a un esame da un professore amico che però, da esaminatore, non vuole variare i criteri del normale giudizio. Aveva sul tavolo, dalla stessa parte, due cartelline senza intestazioni che, evidentemente, contenevano poche pagine. Aveva dei fogli bianchi su cui non ha mai scritto nulla. Guardava me o meglio, verso di me, ma anche, di tanto in tanto, verso uno spazio più largo, come un fondale di cui ero parte o che comunque era alle mie spalle, e in cui sembrava vedere segnali da tener d’occhio.
Pasolini mi appariva una sentinella affacciata su un mondo di cui, da solo, conosceva il pericolo, e considerava suo compito avvisarci in tempo. Mi parlava come dettando, frasi brevi, nette, frammento di un annuncio, non di conversazione. In chi annuncia un evento inatteso, specialmente se tragico, c’è sempre una forma, anche involontaria, anche inconscia, di compiacimenti per il privilegio della comunicazione esclusiva. Non in Pasolini. L’annuncio non prevedeva obiezioni ma non aveva niente di assoluto. Aveva se mai la tristezza medica di un verdetto che non si può cambiare e che non dipende dalla solidarietà e dall’affetto. Il fatto è già avvenuto. Gli era facile e naturale, nel suo modo interessato di ascoltare, raccogliere le domande. Ma la risposta non era alla domanda, era il seguito della dichiarazione, quell’annuncio “siamo tutti in pericolo” che è stato dato non dalla politica o dalla informazione ma dall’istinto di un poeta che sta già vedendo le cose che accadono. Tragici eventi che accadranno dopo, che accadono anche adesso mentre scrivo queste righe su quell’ora e quel giorno, erano già parte di quella intervista-annuncio. Era come se sentisse il peso della sua responsabilità. Conoscevo la sua conversazione, mai allegra ma sempre con una sua equilibrata serenità. Qui, quando ti diceva “tu non sai neanche chi, in questo momento, si sta preparando ad ucciderti” ti avvertiva di un cambiamento pericoloso e profondo che non dipendeva dal ragionare, confrontare, discutere. Dipendeva dal capire in anticipo ciò che in ogni caso sarebbe accaduto.