Una letteratura reticente, che ignora sistematicamente la cosa più grande che sta succedendo sul pianeta, è una “letteratura fallita”. Ne è convinto da tempo il collettivo di scrittori Wu Ming, che da alcuni anni, infatti, si occupa di cambiamento climatico. E oggi, nel libro Quando sarà tornato il mare. Storia del clima che ci attende (Alegre edizioni) – scritto dal collettivo “Moira dal Sito” (anagramma di “Mario Soldati”, ma anche nato dalla parola greca Μοῖρα, “destino”) e da Wu Ming 1 (Roberto Bui) – lo fa scegliendo un territorio, la Bassa Padana tra Ferrara, Rovigo e la costa.
“Entro la fine di questo secolo le terre dove sono nato e cresciuto, tra Ferrara e il delta del Po, saranno invase dal mare. Scordatevi il Mose, non serve a niente”, scrive Bui nell’introduzione. Il romanzo comincia proprio da qui, dall’acqua che ritorna e si riprende la terra, con una parte di popolazione che fugge, ma anche con la creazione di piccole comunità su palafitte dove entra in vigore il baratto e il capitalismo scompare. E dove un possibile, nuovo, futuro si intravede.
Come è maturata nel collettivo Wu Ming la sensibilità verso il tema del cambiamento climatico?
La denuncia dell’ecocidio era presente fin dai tempi di Luther Blissett (pseudonimo collettivo utilizzato da performer, artisti, riviste, operatori del virtuale e collettivi di squatter negli anni novanta, divenuto celebre con il romanzo “Q” del 1999. Nel 2000, da questo, nascerà Wu Ming. ndr). Nel 1995 organizzammo alcune azioni e performances contro la linea ad alta velocità Bologna-Firenze, prevedendo che sull’Appennino ci sarebbero stati scempi, e infatti. Quando Giap non era ancora un blog ma una newsletter, già scrivevamo spesso di ambiente e clima. Nel 2004 scrivemmo un racconto sulla distruzione delle foreste, I cento boscaioli dell’imperatore. Poi ci siamo messi in cammino, letteralmente, esplorando territori, facendo inchiesta sulla loro storia e geografia. Ne sono nati libri come Il sentiero degli dei (sull’Appennino tra Bologna e Firenze), Il sentiero luminoso (sulla pianura padana tra Bologna e Milano) o Un viaggio che non promettiamo breve (sulla Valsusa e la lotta No Tav), in cui abbiamo raccontato un capitalismo che distrugge gli ecosistemi e altera il clima. Da lì a un progetto che avesse un focus specifico su come il disastro climatico cambia un territorio il passo era breve. Si tratta del mio territorio d’origine, il basso ferrarese. Che nel giro di pochi decenni potrebbe finire sott’acqua.
Può raccontarci come è nato Quando qui sarà tornato il mare e con che intento?
Nel 2017 ho cominciato a occuparmi a fondo di clima e storia del Delta padano. Avevo in programma di scrivere un libro su questi temi, Blues per le terre nuove. Prendevo un sacco di appunti, e per “testare” il materiale man mano che si accumulava ho deciso di portare in giro per l’Italia una specie di conferenza-spettacolo, che aveva lo stesso titolo del futuro libro. Poi ho capito che un libro non bastava, serviva un progetto più ampio e articolato. E così Blues per le terre nuove è diventato un insieme di sottoprogetti: libri, escursioni, performances, e laboratori di scrittura collettiva. Quando qui sarà tornato il mare è il risultato del primo laboratorio che ho tenuto a Ostellato, il mio comune nativo. Dall’esperimento è nato il collettivo Moira Dal Sito, che ha scritto questo “romanzo di racconti”.
Secondo lei perché questo enorme tema non entra minimamente nei romanzi dei più noti scrittori italiani, né nelle loro dichiarazioni pubbliche? Perché c’è quella che lei chiama “afasia rispetto al clima”?
Non avrebbe molto senso fare nomi, dal momento che l’afasia sul clima è generalizzata. Posso solo dire che quel mondo resta dentro una certa cornice, mantiene idee fossilizzate su cosa sia la letteratura e quale sia lo status dello scrittore. E che il “realismo” di gran parte della letteratura “seria” – diciamo pure borghese, quella presa in esame da Ghosh – erge steccati contro il reale. Noi Wu Ming ci occupiamo di clima perché nella nostra attività ci sono sempre stati anche elementi “esoletterari”, provenienti da altri ambiti. Non abbiamo cominciato come “letterati” e non facciamo solo letteratura in senso stretto. Siamo anche escursionisti, alpinisti, performer, ci abbiamo sempre “messo il corpo”, e mettendoci il corpo siamo arrivati a certe esplorazioni e decisioni.
In che modo la narrativa dovrebbe parlare della trasformazione del clima? I toni apocalittici restano astratti, generano panico e reazioni difensive. Siamo sicuri ad esempio che la “cli-fi”, o climate fiction, funzioni o non rischia sempre di relegare la realtà al fantastico, restando comunque appannaggio di una nicchia di appassionati?
Non penso che la cli-fi debba “funzionare” in un senso performativo, vale a dire: io ti descrivo questo mondo futuro e allora tu ti incazzi, esci di casa e vai a combattere per il clima. I romanzi non funzionano in maniera così diretta, il loro effetto è più obliquo e sottile. Servono a estendere le nostre percezioni e arricchire le nostre esperienze. Non saranno i romanzi a salvare il mondo dal disastro climatico, lo sappiamo. Ma una letteratura reticente, che ignora sistematicamente la cosa più grande che sta succedendo sul pianeta, è una letteratura fallita. Almeno la cli-fi affronta il tema.
Nel libro c’è anche un’accusa ai media. Secondo lei, scomponendole in “notizie”, le “mareggiate”, gli “eventi estremi” e le “trombe d’aria” restano isolate. Possiamo fare un j’accuse ai media italiani? Chi salverebbe?
Magari fosse solo un problema di individui o testate più o meno meritevoli di altre. La défaillance dell’informazione di fronte al disastro climatico ha cause che stanno a monte, è proprio il concetto di “notizia” a essere totalmente inadeguato di fronte a quel che sta accadendo. Il problema è sistemico. L’attuale concezione dell’informazione si è sviluppata insieme al capitalismo, e non penso si possa cambiare senza mettere in questione il capitalismo. Il giornalismo è prigioniero della quotidianità, del tran tran, del flusso. Per questo sta in ammollo nel pensiero TINA, There Is No Alternative. La letteratura, se si emancipasse dai suoi preconcetti, potrebbe permettersi cose che il giornalismo non può nemmeno immaginare. E nel far questo, forse aiuterebbe il giornalismo.
Ma non sono solo i media a tacere. In generale, se ne parla troppo poco.
“Se ne parla troppo poco” è un grazioso eufemismo. Al momento non ne parla quasi nessuno, né a Ferrara e dintorni né altrove. Chi solleva il problema – scienziato o attivista che sia – è vox clamantis in deserto. Nella storia della specie umana ottant’anni sono il tempo di un singhiozzo, di uno schiocco di dita, ma sono troppi per farne materia di campagne elettorali. Eppure non è uno scenario «di là da venire». Tutt’altro, ci siamo già dentro, perché non accadrà tra ottant’anni: accadrà in ottant’anni. Sta accadendo ora, proprio mentre scrivo, ma un potente meccanismo di rimozione ci fa guardare da un’altra parte. Tutto, pur di non affrontare la questione delle questioni.
E allora cosa fare? Nel libro lei scrive che la letteratura dovrebbe “cantare la mappa”. Può spiegarci meglio?
È una delle chiavi possibili: nella nostra vita quotidiana noi diamo per scontato il territorio e il paesaggio che abbiamo intorno, mentre cambiano forma continuamente. Il mio territorio presenta questa caratteristica in forma estrema, perché fino a poco tempo fa era in gran parte sommerso, poi le bonifiche hanno creato terre nuove, che presto saranno di nuovo sommerse. Quel paesaggio di pianura è stato una breve parentesi, un battito di ciglia. Ma io ci sono cresciuto dentro. È straniante. Questo straniamento è forse quello che ci serve. Tutti i problemi del basso ferrarese possono ribaltarsi in vantaggi. Lo smarrimento e l’assenza di modelli possono lasciar esprimere potenzialità altrove impensate. Il paesaggio può essere strumento di ispirazione e conoscenza, di cui il nuovo attivismo sul clima potrebbe farne tesoro.