Stanchi, stressati, demotivati. In molti casi anche pesantemente traumatizzati dalla necessità di aver dovuto scegliere, nel pieno dell’emergenza della primavera scorsa, chi ospedalizzare e chi no. Tanto da non voler ripetere una esperienza drammatica che ha lasciato cicatrici profonde. Così i medici specialisti lasciano le corsie degli ospedali. Scappano dal servizio sanitario pubblico per andare in pensione, utilizzando le finestre di Quota 100 o Opzione donna. Oppure si licenziano, per poi riciclarsi nella sanità privata, per avviare una carriera libero-professionale o per diventare medici di famiglia.
La fuga era già iniziata qualche anno fa. L’epidemia di Covid-19 non ha fatto altro che darle una poderosa spinta. Con il risultato che – secondo stime del sindacato dei medici dirigenti Anaao-Assomed – entro il 2023 potrebbero abbandonare il posto di lavoro circa 37 mila camici bianchi. “Molti – dice il segretario nazionale del sindacato, Carlo Palermo –, non vogliono affrontare un altro periodo di forte stress fisico e psicologico”. Seppure con dimensioni diverse il fenomeno riguarda un po’ tutto il Paese. Anche se ci sono regioni come il Piemonte dove l’esodo ha raggiunto picchi allarmanti. Qui l’anno scorso, secondo uno studio condotto dallo stesso sindacato, ogni giorno dagli ospedali pubblici si è dimesso almeno un medico. Una resa quotidiana. Con una corsa a lasciare il servizio che ha riguardato soprattutto i reparti in prima linea, tra pronto soccorso, rianimazione, chirurgia, medicina generale: l’era Covid l’ha accelerata. Mentre quelli che hanno usufruito di Quota 100 od Opzione donna, in un solo anno, dal 2019, potrebbero essere stati 1.500, in base alle prime stime. Numeri che in Piemonte, dove ci sono quasi 8.500 medici ospedalieri, dovrebbero replicarsi nel 2020. “Anche volendo prendere in considerazione solo il 15% tra chi ha i requisiti per anticipare l’uscita dal servizio, saremmo comunque a quota 600”, spiega Chiara Rivetti, segretaria regionale di Anaao. Per esempio: ha scelto di andarsene A. (chiede l’anonimato), per 25 anni chirurgo all’ospedale di Bra, in provincia di Cuneo. “Non c’erano più le condizioni per lavorare serenamente – racconta –, e appena ne ho avuto l’opportunità sono passato alla medicina territoriale. Dalla chirurgia ce ne siamo andati in tre. Adesso sono medico di famiglia, come un’altra mia collega. Il terzo è andato in una casa di cura privata”.
Sul fenomeno incide anche il fatto che l’età media dei medici ospedalieri è sempre più alta. Se ne contano in totale, in tutto il Paese (con un contratto a tempo indeterminato), oltre 106mila. Di questi, quasi 21mila hanno tra i 55 e i 59 anni, oltre 30mila hanno superato i sessant’anni, e tra questi più di 5mila i 65. Condizione che riguarda anche gli infermieri. Tanto che si assiste a un paradosso: in alcuni casi – nonostante le Regioni abbiano provveduto a ingaggiare medici per far fronte all’emergenza – gli operatori sanitari sono diminuiti invece di crescere. Il caso del Lazio è emblematico. Qui sono andati in pensione circa 3.500 persone tra medici e infermieri. Vale a dire più dei tremila scarsi reclutati dalla Regione. Così oggi ce ne sono 500 in meno. E va considerata la carenza di 5mila unità ereditata da dieci anni di commissariamento.
In realtà, secondo i medici ospedalieri, la pandemia ha solo scoperchiato una situazione che era già insostenibile da tempo – tra organici sottodimensionati, turni massacranti, ricorso costante agli straordinari, eccessiva burocratizzazione nella gestione dei pazienti – portando a galla quanto denunciavano da anni. Con la conseguenza che l’impatto sul sistema sanitario, sotto la fortissima pressione esercitata dalla pandemia, potrebbe essere devastante, soprattutto per i piccoli ospedali.
“La verità è che la rete ospedaliera finora ha retto sul nostro sacrificio”, dice Esther Pasetti, psichiatra e segretaria Anaao Emilia-Romagna, vale a dire una di quelle regioni dove se fino all’anno scorso il ricorso alla pensione o alle dimissioni scattava sì ma non frequentemente – tanto da poter parlare di casi quasi isolati – oggi assiste a un fenomeno che si sta strutturando. “È come uno stillicidio, lento ma costante: c’è chi si licenzia e chi cerca di andare in pensione in anticipo”, conferma Pasetti. “Del resto – prosegue –, ormai tutti gli ospedali sono diventati come un grande pronto soccorso, dove si lavora molto e in emergenza, con poco tempo da dedicare ai pazienti e alla formazione. È per questo che tanti giovani colleghi preferiscono andare all’estero, in Paesi dove ci sono condizioni di lavoro diverse, migliori”. C’è poi l’aspetto economico. L’indennità di esclusività – istituita nel 1999, vale circa 10mila euro lordi all’anno – non è mai stata incrementata e ha perso circa il 50% del valore. Mentre ai medici del Pronto soccorso da tre anni non viene pagata l’indennità Inail. L’epidemia ha messo a nudo il re.