È più giovane, si contagia in genere in famiglia, quando gli viene diagnosticato il virus sta complessivamente meglio di chi si ammalava 5 o 6 mesi fa, viene curato prima e meglio di quanto avveniva a marzo e aprile. Oggi il malato di Covid-19 fotografato dalle statistiche delle autorità sanitarie ha tratti di diversità rispetto a quello della prima fase dell’emergenza. “Sicuramente rispetto ai mesi scorsi li intercettiamo quando sono in condizioni migliori – spiega Patrizio Pezzotti, epidemiologo dell’Istituto Superiore di Sanità –. A febbraio, marzo e inizio aprile diagnosticavamo solo le persone già gravi, che spesso erano già in ospedale e lì si erano infettate”. A fare buona parte della differenza, tuttavia, è la lente con cui osserviamo il fenomeno: “In quel periodo c’erano pochi tamponi e abbiamo visto solo la punta dell’iceberg. Da aprile, con una diminuzione degli infettati e l’aumento dei test, abbiamo iniziato a diagnosticare anche chi non entrava in ospedale, ovvero la parte dell’iceberg sotto al pelo dell’acqua”. Un esempio: secondo lo studio di siero-prevalenza pubblicato dall’Istat in estate, in Italia si erano infettate circa 1,5 milioni di persone a fronte delle 300 mila diagnosticate Covid. “Avevamo visto 1/6 delle infezioni reali. Oggi il rapporto non è più di 1 a 6, ma di 1 a 2”. Nel frattempo “è aumentata la capacità del sistema sanitario di intercettare i casi di SarsCov2, ma anche quella di curarli”.
L’ETà MEDIA È DIMINUITA
Oggi i pazienti Covid sono molto più giovani che all’inizio della pandemia. Nei primi due mesi dell’emergenza, secondo i dati dell’Iss, l’età mediana era di circa 60 anni, con un picco di 68 toccato tra il 6 e il 13 aprile. Da lì è iniziata una discesa, anche piuttosto rapida, fino ai 29 anni registrati nella settimana centrale di agosto: è il periodo clou delle ferie estive, che per loro natura sono appannaggio dei più giovani. Da quel punto in poi l’età ha cominciato a risalire e nelle ultime 2 settimane considerate dall’Istituto si è assestata attorno ai 42 anni. Oggi il 35,7% dei malati Covid ha più di 50 anni, il 47,4% si colloca tra i 19 e i 50 ma il 17% ha meno di 19 anni. Se oggi, secondo l’Iss, la trasmissione del virus avviene nel 75% dei casi in famiglia, “nei primi due mesi dell’emergenza l’epidemia era fortemente diffusa negli ospedali e nelle Rsa – prosegue Pezzotti –. Oggi vediamo meno anziani malati perché li stiamo proteggendo meglio e soprattutto proteggiamo quelli che vivono nelle strutture sanitarie, i più fragili tra i fragili. Quindi oggi può essere esposto al SarsCov2 il nonno che vive in famiglia e non quello che vive in una Rsa”.
CHI SCOVA I NUOVI CASI
Secondo dati Iss aggiornati al 10 ottobre, il 29,2% dei nuovi casi viene individuato perché sintomatico, il 31% attraverso le attività di screening e il 33,6% con il contact tracing, che negli ultimi giorni è saltato a causa dell’aumento dei casi. Invece, “a marzo e aprile i nuovi positivi venivano individuati in seguito all’insorgenza di sintomi – spiega Pezzotti –: non è errato parlare del 90% dei casi”.
COME SI ARRIVA IN OSPEDALE
Mentre nelle prime settimane dell’epidemia Asl e ospedali registravano una maggiore percentuale di casi severi, critici e di persone già decedute al momento della diagnosi (fatta con tamponi post mortem), con il passare dei mesi sono aumentati i casi asintomatici o pauci-sintomatici e una marcata riduzione dei casi severi e dei decessi. Ora le cose, però, stanno cambiando di nuovo: nella settimana tra il 4 e il 10 ottobre la percentuale di chi non ha sintomi è leggermente diminuita, mentre è in crescita quella dei casi con stato clinico lieve al momento della diagnosi. Ancora: se nel periodo 21 settembre-4 ottobre i casi sintomatici erano stati 8.198, tra il 2 settembre e l’11 ottobre sono arrivati a 15.189: in pratica il loro numero “è quasi raddoppiato”, certifica l’Iss. “Significa che i casi stanno crescendo con un andamento non più lineare – traduce Pezzotti –. L’indice di trasmissione ha corso tanto e probabilmente presto supererà quota 1,5. Se in sette giorni siamo passati da 8 mila a 15 mila casi, rischiamo che la prossima settimana passeremo da 15 a 30 mila. A quel punto gli ospedali non ce la faranno e il sistema andrà in crisi”.
L’ETà DI CHI MUORE
Nel corso dei mesi è cambiata anche l’età di chi non ce la fa: se nella quarta settimana di marzo chi moriva aveva in media 78,23 anni e nella prima settimana di aprile toccava i 79,38, l’età saliva fino a 84,86 anni nella prima settimana di luglio e nei primi 7 giorni di ottobre era scesa a 81,59.
LE TERAPIE INTENSIVE
Molto è cambiato nelle terapie intensive. Se nella Fase 1 l’età media dei pazienti superava i 60-65 anni, oggi si aggira intorno ai 50, nell’ambito di una forbice che si è molto ampliata: si va dai 30 ai 90 anni, come rileva Alessandro Vergallo, presidente nazionale di Aaroi-Emac, l’associazione degli anestesisti e rianimatori. “Nella prima fase – dice Vergallo – i pazienti tra i 30 e i 40 anni non c’erano se non con minime percentuali, a differenza di adesso. Si deve a questo, e al fatto che diagnosi e intervento terapeutico sono più precoci, l’indice di mortalità più basso: non certo a una minore aggressività del virus. Ecco perché non ha senso dire che l’infezione è meno grave”.
Se c’è una cosa che, infatti, non è mutata è il quadro clinico dei pazienti che finiscono in terapia intensiva. “Siamo di fronte alle stesse insufficienze respiratorie, tali da richiedere l’intubazione – aggiunge Cristina Mascheroni, presidente di Aaroi-Emac della Lombardia –. E non sono cambiati i quadri delle Tac, che rivelano una forte sofferenza polmonare, come nella prima ondata. Clinicamente il virus appare sempre lo stesso”. La differenza sta nel fatto che non sempre la gravità dell’infezione è strettamente correlata alla presenza di comorbilità. “Oggi non è affatto detto che i pazienti Covid che finiscono in T.I. presentino patologie croniche”, prosegue Mascheroni . Non, almeno, come accadeva quasi sempre in primavera, tra obesità, ipertensione, insufficienze renali o patologie cardiache. In base al rapporto dell’Iss che considera il periodo compreso tra la terza settimana di febbraio e il 4 ottobre, i deceduti avevano nel 62,9% dei casi 3 o più patologie, nel 19,9% almeno 2 e solo il 3,6% non ne presentava neanche una. Il fatto che ora non si possa più parlare di una correlazione automatica tra comorbilità e gravità del quadro clinico è dovuta all’abbassamento dell’età media dei ricoverati: semplicemente, ci sono meno anziani. E i criteri che guidano i medici nella scelta di trasferire un paziente in T.I. sono gli stessi: in primis una grave insufficienza respiratoria, che dall’inizio dell’epidemia a oggi ha riguardato il 94,7% dei casi seguiti da morte.