Se c’è un intellettuale serio, in Italia, è Maurizio Crozza: l’ultimo ad aver pizzicato in odor di tuttologia-fuffologia – con la sua straordinaria imitazione – è il fisico Carlo Rovelli, più che un divulgatore scientifico, un best-sellerista da centinaia di migliaia di copie con Helgoland (Adelphi), da settimane in classifica pur parlando di fisica quantistica.
Siamo un Paese di scarse letture, antiscientismo e analfabetismo funzionale, come potremmo mai capire le funzioni? Se ci sfugge la lingua madre, cosa recepiamo di Heisenberg et al.? “Se non vediamo interferenza, non c’è bisogno di pensare che ci sia una sovrapposizione quantistica: ‘sovrapposizione quantistica’ – lo ricordo perché si fa molto spesso confusione su questo punto – significa solo che vediamo interferenze”, scrive il sibilino e tautologico Rovelli. Quello vero, non dissimile da quello finto di Crozza, quando parla allo stesso tempo dello “sgabello che esiste e non esiste”.
Altro titolo di successo, ma più abbordabile, è La matematica è politica di Chiara Valerio (Einaudi), matematica ormai prestata alle Belle Lettere. E da Jim Al-Khalili (Il mondo secondo la fisica, Bollati Boringhieri) ad Anthony Aguirre (Zen e multiversi, Raffaello Cortina), le librerie pullulano di saggi di alta caratura scientifica. Chi li capisce è bravo. Valerio spiega così il fenomeno: “Si legge per curiosità e per partecipare di una esperienza”. Lei e i suoi colleghi – medici e biologi compresi, visti i tempi – rischiano però di diventare le nuove pop star, i nuovi guru, tanto oscuri quanto seduttivi. “Io non penso che la scienza abbia a che fare con i guru: la scienza si basa su prove, gli scienziati quando parlano, anche nella loro assertività, stanno dichiarando verità sempre relative a un contesto, non assolute. Altra faccenda è la trasformazione che viene fatta dai mezzi di comunicazione”.
I nuovi divulgatori vantano, però, il fascino – se non l’intenzione – degli oracoli: “È un meccanismo comprensibile”, spiega Piergiorgio Odifreddi, matematico e anch’egli divulgatore (uno su tutti, Il matematico impertinente, Longanesi). “I media e il pubblico sono attratti dai personaggi eccentrici, eretici, anticonvenzionali. Serve eccentricità scientifica per avere successo: non ci interessa quello che dice Einstein, ché tanto non lo capiamo, ma il personaggio Einstein, il perfetto stereotipo dello scienziato pazzo, borderline”.
Moda, fenomeno editoriale creato ad arte o semplice curiosità: da cosa nasce l’exploit dei titoli di scienza? “Ormai da vent’anni la divulgazione scientifica ha preso piede, non solo grazie all’editoria, ma anche attraverso i festival, i film, i fumetti… L’universo elegante di Brian Greene (Einaudi) fu rilanciato addirittura da Woody Allen. Il caso più eclatante resta, però, Dal big bang ai buchi neri di Stephen Hawking (Bur): un successo planetario, che dipende a mio avviso da due fattori, comuni a Rovelli. Il primo è l’aspetto fisico, legato alla grave malattia dell’astrofisico; così il mio amico Carlo, che gira coi sandali da frate, spettinato, ha il physique du rôle dello scienziato eccentrico. Poi, in entrambi, prevale l’aspetto predicatorio: la gente vuole avere certezze. Se scrivo in un libro, o lascio intendere, che sono tutti ignoranti e cretini, cosa che probabilmente è più vicina alla realtà, non venderò nulla. Se l’autore invece dà l’illusione al lettore di essere intelligente e di capire, spiegandogli la scienza in modo sufficientemente superficiale, ecco che sono tutti contenti. Hawking è stato, in questo, un maestro: ha venduto milioni di copie nel mondo, ma se uno chiede al lettore ‘che cos’hai capito?’, probabilmente non saprebbe ripetere nemmeno una frase. Vale pure per Rovelli con Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi): lì è stato il genio di Calasso a capire che il filone funziona. Non a caso Adelphi è una casa editrice molto new age, ammicca al pubblico con teorie parascientifiche…”.
C’è pure un pizzico di ironia e sadismo, da quelle parti: basti pensare ai Sei pezzi facili – si fa per dire – e ai Sei pezzi meno facili – si fa per dire – di Richard Feynman. “Lui è il tipico esempio del genio burlone, famoso proprio per la sua buffonaggine, la sua vita tra spogliarelliste e pub”. Questo sul versante mondano, mentre su quello spirituale i nuovi divulgatori si pongono spesso come filosofi, abbozzando una visione mistica della scienza, quasi religiosa. Metafora di oscurità, tra sacro e profano, è il termine “buchi neri”. “Fino agli Anni 60 si chiamavano ‘singolarità spazio-temporali’; ovvio che non interessassero al pubblico. Fu John Wheeler a coniare la definizione: un’operazione di marketing dal facile doppio senso, tanto da precisare che ‘i buchi neri non hanno peli’… È chiaro, poi, che argomenti come il tempo, l’universo, la fine del mondo attirano più delle formulette asettiche”. Ma stiamo sempre parlando di teorie scientifiche, quindi perfettibili, non di verità metafisiche o dogmatiche. “Infatti, quando Rovelli va in tv e dice: ‘Noi sappiamo che il tempo non esiste’, sta avanzando la sua teoria, tra l’altro minoritaria e poco condivisa nella comunità scientifica”. Ma tanto, chi lo capisce e lo contesta?