Se qui a Milano non fossimo persone abituate a guardare il cielo, la mattina, per decidere al massimo se prendere la macchina o il tram, questo cielo plumbeo che schiaccia i tetti da giorni, ci sembrerebbe un cattivo presagio. Presagio di qualcosa che suggeriscono i numeri, spietati, dei contagi quotidiani non più scanditi dalla cantilena di Borrelli, ma immobili, duri, nella griglia fredda delle tabelle delle 18. Milano è in affanno, inutile girarci intorno. “Tocca di nuovo a noi”, è questo che ci diciamo la mattina quando ci incontriamo in ufficio o prendiamo un caffè al bar, attenti a non toccare più neppure il bancone, come a maggio, quando ci siamo riaffacciati al mondo.
Il virus è di nuovo in Lombardia o forse non se n’è mai andato veramente, perché se a marzo e aprile era dappertutto, se in Val Seriana – come sembra – la metà della popolazione se l’era preso, era impensabile che non fosse ancora qui, magari momentaneamente indebolito o nascosto, ma ancora qui. Ho fatto una passeggiata per la mia città ieri, e ho visto una Milano che boccheggia. Via Montenapoleone, alle undici della mattina, era deserta. I negozi dei grandi marchi della moda sembravano chiese sconsacrate, spogli, vuoti, orfani di liturgie uguali da anni. Nessun turista, nessun milanese, lavori in corso sulla strada, macchine parcheggiate disordinatamente come fuori da un pub, commessi immobili come manichini o intenti a spostare cose che nessuno comprerà. Neppure le vetrine sono quelle di una volta. Perfino i marchi famosi per gli abiti più barocchi, più luccicanti, hanno vestito i manichini di semplicità: maglioni, stivali, cappotti lisci, pantaloni comodi. Come a dire: la stagione delle feste non comincerà.
Ho continuato a camminare. Andando verso il Duomo ho visto negozi che stavano lì da una vita con le vetrine smontate e insegne senza più un nome. L’enorme (ex) negozio Nadine, quello con decine e decine di vestiti colorati che non mi piacevano un granché però “Entriamo a guardare, non si sa mai” non c’è più. C’è ancora, chissà per quanto, il bar/locale di mio fratello in zona Lambrate, “ma qui da qualche giorno la gente non esce più, mi hanno annullato tutti i piccoli eventi, forse questa volta chiudo sul serio”. Mio figlio aspetta che la sua classe finisca in quarantena come tante altre del suo istituto, una sua amica l’altro giorno era a pranzo con un positivo, ieri è rimasta a casa, aspetta di fare il tampone. E se è vero che i dati empirici contano poco, è anche vero che qui i dati empirici fanno più paura che a marzo, quando tanti si sono ammalati senza saperlo. Tutti noi, qui a Milano, sentiamo il virus più vicino, più minaccioso, come qualcosa di ineluttabile. Abbiamo amici, parenti, colleghi ammalati, figli in quarantena, preoccupati, ammalati, tamponati. Sono andata anche al San Raffaele, ieri. Mi sono chiesta come si prepara alla seconda ondata il grande ospedale da cui il cinicamente vivo Alberto Zangrillo ci tranquillizzava tutti. Stavano riallestendo le due tensostrutture con le terapie intensive tirate su grazie ai soldi raccolti dai Ferragnez. Era tutto aperto, sono entrata. Scatoloni per terra, materiale da buttare, luci accese e le sale con letti e respiratori vuote. Si poteva caricare su un’automobile qualche respiratore, qualche macchinario e andare via. C’era l’aria di chi sta facendo le cose in fretta, senza badare a chiudere una porta. Perché non resta molto tempo. Zangrillo lo sa. E lo sa l’infermiera che a un certo punto è spuntata da un corridoio vuoto con uno scatolone in mano, incaricata di rendere di nuovo quei padiglioni efficienti, infermiera che “Non rilascio dichiarazioni se non autorizzata dalla direzione”. Serve, adesso, che lo sappia la politica. Perché questa volta non si tratta di chiudere una cittadina nella cintura attorno a Milano, non tocca al paesino in Veneto in cui mettere gli abitanti in fila ordinata per il tampone, non è la Val Seriana in cui puoi nascondere la polvere sotto al tappeto finché non arriva il bollettino dei morti.
È Milano. E per decidere di chiudere la grande, vincente, incrollabile Milano ci vuole coraggio. Ci vuole una politica decisionista che in questo momento è tragicamente, maldestramente incarnata da un Attilio Fontana che con eroismo chiude la città dopo le 23 e da un sindaco – Beppe Sala – che è passato da “Milano non si ferma” a “La scuola non si ferma” (è contrario alla didattica a distanza anche solo per le superiori). Insomma, nessuno chiude Milano. Nessuno osa decidere oggi quel che dovrà decidere domani. Nessuno sembra capire che una decisione rapida e ferma, senza mezze misure, oggi, ci preserverà da misure drastiche e dalla durata incerta, domani. Io, da milanese adottata, non sono pronta di nuovo al suono di ambulanze nelle orecchie, alla fila spettrale fuori dai supermercati, alle telefonate degli amici che chiedono se esiste un numero dell’emergenza a cui risponda qualcuno perché non respirano o non respira il nonno, il marito, la mamma. Non sono pronta e non voglio pagare per i tentennamenti di chi non si preoccupa di chi muore oggi, ma di chi verrà eletto domani.