La reazione messa in campo dall’Eurozona davanti alla pandemia e alla relativa crisi economica – in sostanza, sostegno incondizionato della Bce e sospensione dei vincoli di bilancio (più quella parziale del divieto di aiuti di Stato) – è qui per restare o bisogna invece tornare quanto prima al vecchio mondo? Lo scontro silenzioso che si combatte tra i governi dell’area dell’euro è tutto qua e la Banca centrale ovviamente non è indenne da queste tensioni, specie perché finora è stata l’unico vero argine al tracollo: la Francia, i Paesi mediterranei e persino nordici come l’Olanda sono convinti che il mondo di prima non debba tornare, un bel pezzo dell’establishment (non solo conservatore) tedesco e i suoi tradizionali alleati “rigoristi” non vedono l’ora che lo faccia.
È questo stato di cose che riflette una notizia battuta dall’agenzia Reuters, che ha ottime fonti a Francoforte e stavolta ne cita quattro (ovviamente anonime), che potrebbe innescare una bomba nell’Eurozona: la sostanza è che, visto che a dicembre bisognerà comunque aumentare il pacchetto di stimolo all’economia, tra i governatori si discute se (o meglio, alcuni governatori spingono per) usare uno strumento tecnico che spinga alcuni Paesi a usare i prestiti europei anziché emettere debito statale. Portogallo e Spagna, che si finanziano ormai quasi a zero anche sui decennali, hanno infatti annunciato che – Sure a parte – non ricorreranno a prestiti comuni neanche per il Recovery Fund: un credito condizionato a una serie di obiettivi e controlli e, per di più, privilegiato rispetto a quello statale. Lo stesso governo italiano ha fatto sapere che li userà con parsimonia. Tra Bce e assenza del Patto di Stabilità siamo, per molti versi, in una situazione in cui non c’è alcun vincolo esterno per i Paesi mediterranei: in sostanza, non gli si può dire che politiche adottare e costringerli se non vogliono.
E qui arriva la notizia, diciamo la minaccia, riportata dalla Reuters. Attualmente la Bce ha in piedi, per quel che interessa ai nostri fini, due programmi di acquisto: il vecchio Quantitative easing (App in sigla), teoricamente in via di chiusura, e quello anti-pandemia da 1.350 miliardi (Pepp) fino a giugno 2021. Quest’ultimo, peraltro, è molto più flessibile del Qe (non rispetta, ad esempio, il limite degli acquisti per quota di capitale) e finora è stato gestito “premiando” Paesi come l’Italia, che ha assorbito circa il 20% degli acquisti che, sommati a quelli del programma App, fanno 150 miliardi molto abbondanti nel 2020 (è appena il caso di ricordare che la banca centrale sta rinnovando i titoli in automatico e retrocede gli interessi agli Stati). Il Btp decennale italiano ieri pagava lo 0,66%: una cosa che non era mai successa.
Torniamo alle intenzioni tedesche riportate da Reuters: tutti sanno che a dicembre la Bce dovrà allungare e aumentare (di 500 miliardi, si dice) i suoi programmi di acquisti; come si farà allora a mettere pressione sui Paesi ad alto debito? L’idea in discussione, pare, sia estendere non il flessibile Pepp, ma il più rigido Quantitative easing, che è sottoposto alla cosiddetta “capital key”, cioè gli acquisti pro-quota (per l’Italia si passerebbe dal 20% del Pepp a meno del 14%): sarebbero comunque un sacco di soldi, ma evidentemente si spera che il segnale di “normalizzazione” faccia effetto sui mercati facendo salire gli spread e spingendo Italia, Spagna eccetera nelle braccia dei prestiti del programma Next Generation EU (se non del famigerato Mes).
Il motivo è presto detto: quei soldi – raccolti dalla Commissione ma garantiti dagli Stati – comportano vincoli quanto a destinazione e tempistica, ma anche in termini di bilancio pubblico quando sarà ripristinato il Patto di Stabilità (pienamente e nella sua forma originaria dal 2023 auspicano anche pubblicamente i politici nordeuropei) visto che nel Recovery si fa riferimento alle “raccomandazioni” della Commissione ai vari Stati.
Finora la Bce francese della governatrice Christine Lagarde ha fatto argine a questi progetti, ma la partita – come si vede – non è chiusa: le difficoltà nel chiudere l’accordo proprio su Next Generation EU stanno lì a ricordare a tutti che non bisogna troppo far conto sugli afflati solidaristici in quel ring commerciale che è l’Unione europea.