Alcuni recenti casi riguardanti in particolare anziani detenuti, qualcuno dei quali dietro le sbarre da decenni, hanno riaperto – e rischiano di infiammare, sia pure di tangente – il dibattito sulla umanità del 41-bis, espressione ricorrentemente usata per indicare il complesso di restrizioni e deroghe al regime carcerario ordinario, specificamente previsto per soggetti considerati particolarmente pericolosi dall’articolo 41-bis (appunto) dell’Ordinamento penitenziario.
I critici del 41-bis giungono a definirlo un sistema sadico mirante all’annientamento di un presunto nemico, e come tale incompatibile con la nostra Costituzione che sancisce la finalità rieducativa della pena. È un regime – dicono – che impone l’isolamento e forti restrizioni ai rapporti con l’esterno, ma anche molte altre prescrizioni che non hanno niente a che vedere con la “sicurezza”. Cosa c’entra con la sicurezza, per esempio, il divieto di vestirsi come si vuole? O di usare lenzuola meno grezze di quelle fornite dall’amministrazione? O le mille altre restrizioni senza altra ragione che non sia quella di rendere la vita di alcuni detenuti impossibile? Avanzano dunque il sospetto che si tratti in realtà di un regime che vuole punire chi non “si pente”, o peggio di una sorta di tortura intesa a favorire la “collaborazione”, con ciò aggravando fortemente i profili di incostituzionalità dell’istituto. Perché per “pentimento” nella nostra prassi giudiziaria non si intende affatto quel travaglio morale che porta a una revisione critica del proprio passato e alla decisione di cambiare vita. No, significa solo confessione e, soprattutto, delazione. Insomma, proprio la finalità tipica che si propone la tortura.
Per conto mio, mi permetto di rilevare che il carattere comunque eccezionale attribuito dalla legge alle restrizioni dell’ordinario trattamento penitenziario sembra poco adattarsi al fatto che i soggetti attualmente sottoposti al 41-bis siano tanti, oltre 600, e che le proroghe sono di fatto automatiche e senza limitazioni temporali. Circostanze, queste, che lo fanno piuttosto assomigliare a un regime “ordinario” per detenuti “speciali” o, peggio, a una sorta di pena supplementare che viene peraltro applicata da un’autorità amministrativa, in relazioni a fattispecie evanescenti e astratte come il ricorso di “gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica”. Il fatto poi che, per legge, i ricorsi relativi siano stati attribuiti alla competenza esclusiva del Tribunale di Sorveglianza di Roma, fa storcere il naso a molti, evocando lo spettro del “Tribunale speciale”.
Al battaglione di detenuti al 41-bis, fa poi da specchio l’armata dei collaboratori di giustizia, oltre 1.000, sottoposti a speciale regime di protezione. Anche qui il numero elevatissimo si adatta poco a misure concepite come “eccezionali”, facendo sorgere il sospetto che, in certi ambienti di criminalità organizzata, sia diventata prassi “ordinaria” quella di commettere reati gravissimi e poi, una volta beccati, “pentirsi” e godere dei sontuosi benefici legati alla collaborazione. Benefici che possono fruttare, nei fatti, una condanna a una pena complessiva inferiore ai venti anni di carcere (oltre ad arresti domiciliari e semilibertà), a fronte anche di una decina di omicidi da ergastolo.
Anche qui, e senza alcuna considerazione di ordine morale, i critici del sistema parlano di una misura criminogena che, paradossalmente, favorisce il crimine, offrendo una prospettiva – il “pentimento” – ai più efferati assassini, messi nella condizione di delinquere senza dover subire conseguenze irrimediabili. Addirittura, c’è chi si spinge ad affermare che, in vista del “pentimento”, conviene ai criminali moltiplicare i propri reati, per avere più cose da “rivelare” e, dunque, accrescere la “rilevanza del contributo all’accertamento della verità”, cui sono commisurati i benefici di legge.
Non v’è dubbio che tutto questo dibattito, e più in generale il dibattito che riguarda il sistema penitenziario, che investe punti strategici del nostro sistema penale, quale il trattamento dei detenuti e le misure premiali per i collaboratori di giustizia, meriterebbe un migliore approfondimento e una più vasta platea, che non sia solo quella degli addetti ai lavori.
Per quanto mi riguarda, mi lascia tuttavia molto perplesso il fatto che in Italia chi critica il 41-bis – che, per carità, entro limiti ben determinati e soprattutto se relegato all’ambito di eccezionalità per il quale era stato concepito, è pure utile e necessario in un Paese come il nostro nel quale la criminalità organizzata è particolarmente aggressiva – rischia concretamente di essere additato come “fiancheggiatore delle mafie”, e mi lascia ancor più perplesso che il dibattito sul carcere, soprattutto da parte dei media, si concentri quasi esclusivamente sul 41-bis, dimenticando che ci sono altri 60 mila detenuti (circa), sovente costretti a vivere in condizioni ai limiti del disumano, tanto da essere stati per questo spesso bacchettati dall’Europa. A proposito di Europa, chi sa se una piccola parte dei soldi che arriveranno coi programmi del Recovery Fund non possa essere spesa, invece che in sussidi vari, per migliorare il sistema carcerario e dunque le condizioni di vita dei 60 mila e più esseri umani detenuti.
Caro dottor Woodcock, immagino che le sue osservazioni susciteranno un dibattito fra gli addetti ai lavori, vista la sensibilità del tema 41-bis. “Il Fatto” lo ospiterà volentieri.
M. Trav.