Nell’ospedale di Vercelli, scrive La Stampa, sono stati ricoverati alcuni pazienti Covid negazionisti. Roberta Petrino, responsabile del reparto Medicina e chirurgia d’urgenza, racconta che pur “essendo clinicamente positivi e sofferenti a causa del virus” i degenti sostenevano che “comunque non si trattava di Covid” e consideravano l’intervento del personale sanitario “come una costrizione”.
L’accaduto non deve sorprendere. Da sempre durante le pandemie vi è chi nega il contagio o ne minimizza rischi e portata. Lo faceva ad esempio il don Ferrante dei Promessi Sposi, splendido prototipo dell’erudito seicentesco, che mentre Milano veniva decimata dalla peste affermava sulla base dei suoi studi filosofici l’inesistenza dell’epidemia e attribuiva morti e bubboni a una congiunzione astrale avversa. Inutile dire che don Ferrante rifiutandosi di prendere precauzioni anche minime (già allora si capiva che confinamento e distanziamento evitavano il contagio) finì per ammalarsi e perire.
Oggi però sappiamo che i virus esistono. Per dirla con don Ferrante sappiamo che sono “sostanza”. Eppure, indipendentemente dalla classe sociale, il ruolo ricoperto e gli studi sostenuti, i negazionisti o i para-negazionisti abbondano. Molti incolpano i social, altri alcune trasmissioni televisive. Altri ancora denunciano il cattivo esempio di opinion-leader o leader di partito, alcuni dei quali si sono fatti addirittura vanto di non indossare la mascherina. Tutto vero, ma non solo. Perché dietro la scelta di cavalcare il legittimo malessere di centinaia di migliaia di elettori messi economicamente in ginocchio dalle restrizioni chiedendo non ristori maggiori, ma folli aperture generalizzate, non c’è esclusivamente un calcolo politico. C’è qualcosa di più profondo. Qualcosa che fa parte dell’animo di ciascuno di noi. C’è un meccanismo psicologico che Sigmund e Anna Freud avevano perfettamente individuato più di cento anni fa. Freud spiega che la Verneinung (la negazione) scatta quando la realtà è insoddisfacente o insopportabile. Di fronte a un lutto, a una violenza sessuale o a un rischio incombente s’innesca un procedimento mentale che ci consente di non ammettere fatti e circostanze che altrimenti ci procurerebbero una sofferenza inaudita. Finché si resta nell’ambito dell’ottimismo non ci sono problemi (uno degli slogan della prima ondata era “andrà tutto bene”) quando invece si entra nel campo del diniego cominciano i guai. Sono possibili reazioni violente o inconsulte, paranoie, teorie complottistiche e via dicendo. Che le cose stiano così lo dimostra bene anche la cronaca degli ultimi mesi. Pensate, ad esempio, al costituzionalista Sabino Cassese. In luglio l’erudito giurista sosteneva che la proroga dello stato di emergenza era sbagliata perché l’emergenza non esisteva più. Centinaia di scienziati continuavano a ripetere che dovevamo prepararci a ciò che sta accadendo oggi, ma lui arrivava lo stesso ad avanzare arditi paragoni tra Giuseppe Conte e Viktor Orbàn. Avrebbe fatto lo stesso se avesse realmente percepito il rischio seconda ondata? Per quanto grande sia la disistima di Cassese nei confronti del governo (in democrazia perfettamente legittima), noi pensiamo di no. Perché accanto al pericolo per la collettività l’anziano accademico avrebbe pure colto quello per la sua reputazione. E lo stesso avrebbero fatto tanti altri che, in Parlamento come in piazza, esorcizzavano la paura scegliendo di non vedere. Moderni don Ferrante ai quali comunque auguriamo, al contrario del personaggio manzoniano, lunga vita e miglior fortuna.