La peste ha sempre colpito profondamente l’immaginazione umana. Alcuni fra i maggiori autori del canone occidentale, da Tucidide a Boccaccio, hanno rappresentato le epidemie del loro tempo in pagine memorabili; e anche quando la malattia è scomparsa dall’Occidente la sua formidabile potenza allegorica ha continuato ad alimentare l’immaginazione degli scrittori.
È il caso, ovviamente, di Manzoni, ma anche di Camus, con la sua inquietante invenzione d’una città novecentesca invasa dalla peste; o di Jean Giono, che nell’Ussaro sul tetto descrive il colera del 1830, attribuendo però a quell’epidemia relativamente benigna le connotazioni apocalittiche d’una pestilenza, di gran lunga più efficaci quanto a resa letteraria. Ma l’epidemia più famosa è certo quella del 1348, che gli inglesi chiamano Black Death e che anche da noi è invalso l’uso di chiamare “Peste Nera”.
Nata nelle steppe asiatiche, allora sotto il dominio mongolo, la pestilenza si manifestò a Caffa, sulle rive del Mar Nero, nella primavera del 1347; e da qui navi genovesi portarono in Italia ratti, pulci e marinai infetti, contaminando dapprima il porto di Messina, e poi via via gli altri porti italiani. A partire da quell’estate l’epidemia si diffuse lentamente in tutta Europa, covando sotto la cenere nei mesi invernali, quando le pulci cadono in una sorta di letargo, e riprendendo vigore ai primi caldi; impiegò tre anni per raggiungere gli estremi confini d’Europa, la Scozia e la Scandinavia, e per portar via, secondo stime correnti e quasi certamente esagerate, un terzo della popolazione europea.
Più correttamente bisognerebbe dunque parlare dell’epidemia del 1347-1351, anche se il 1348 è l’anno che segnò la massima mortalità nei Paesi più popolosi e civilizzati del continente, e in cui Boccaccio vide la peste a Firenze e la descrisse. È questo lo sfondo del libro di Klaus Bergdolt La grande pandemia. Come la Peste Nera generò il mondo nuovo, un rispettabile lavoro di divulgazione, che descrive in dettaglio il progredire dell’epidemia da un Paese all’altro e le sue conseguenze, fra cui l’esplosione isterica di persecuzioni contro gli ebrei, ritenuti, soprattutto in Germania, i propagatori della pestilenza.
L’autore, medico di professione, si sofferma con interesse sulle teorie mediche dell’epoca, analizzando i numerosissimi Consigli contro la peste e Regimi di sanità messi alla moda dall’epidemia. Anziché liquidare con facile disprezzo le dottrine medievali, egli mostra come la teoria galenica degli umori offrisse una spiegazione in apparenza piuttosto logica del decorso della malattia; col solo difetto che i rimedi suggeriti, benché perfettamente razionali in rapporto alle premesse, erano in realtà del tutto inefficaci, o lo erano soltanto per caso e non per le ragioni ipotizzate dalle Facoltà di medicina. Più opinabile è una visione epocale e catastrofica della pestilenza, quasi che a quell’evento, pur traumatico, si potessero attribuire tutt’insieme il declino demografico e la crisi economica del Trecento, un radicale mutamento di sensibilità e addirittura la fine del Medioevo, qualunque cosa ciò significhi. Si rischia di dimenticare che l’uomo d’allora era abituato a veder morire gli altri intorno a sé, e sapeva che la morte porta via i giovani e addirittura i bambini con la stessa frequenza degli adulti e dei vecchi.
L’epidemia del 1348 confermò ciò che tutti sapevano, e che già in precedenza trovava espressione nell’arte e negli scritti dei moralisti. L’affresco di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa, Il trionfo della Morte, ritenuto a lungo la più drammatica rappresentazione dell’impotenza dell’uomo davanti alla peste, venne completato dieci anni prima della grande epidemia. Anche sul piano economico e demografico la peste non lasciò un’eredità a senso unico. L’epidemia, come ben notarono i contemporanei, falciò i poveri più dei ricchi, mietendo la gran parte delle sue vittime fra gli immigrati e i mendicanti che si accalcavano nei quartieri bassi delle città, e fra i braccianti miserabili delle campagne. In Inghilterra morirono solo due vescovi su diciassette e un cavaliere dell’ordine della Giarrettiera su venticinque; fra tutti i re d’Europa uno solo, Alfonso X di Castiglia, cadde vittima della moria. Magra consolazione, certo, soprattutto dal punto di vista delle 295 vittime; ma è un fatto che i sopravvissuti si ritrovarono a respirare meglio, in un mondo non più sovraffollato.
Tutti quanti avevano ereditato dai parenti morti, la disoccupazione era scomparsa e i salari in aumento, e le corporazioni artigiane avevano abbreviato i periodi di apprendistato e facilitato l’accesso alle professioni. “E tale che non avea nulla si trovò ricco”, osserva freddamente il cronista fiorentino Marchionne di Coppo Stefani.
Quest’epidemia che regalò all’Europa il pieno impiego e consumi in crescita, com’è ben documentato ad esempio nel caso della domanda di carne da parte delle masse urbane, finisce per assomigliare stranamente a eventi più vicini a noi, quale ad esempio la seconda guerra mondiale: eventi spaventosi, che comportarono un momentaneo imbarbarimento di tutti gli standard morali, e un carico atroce di sofferenze umane, ma che non si lasciarono dietro un mondo istupidito e in declino, bensì una società formicolante di energie e d’una ritrovata voglia di vivere.
Rispetto alla guerra mondiale, la peste comportò certo una mortalità immensamente più alta, ma lasciò intatte le città e le case, le botteghe e i conti in banca; non è cinismo concludere che, sepolti gli ultimi morti, gli europei tornarono ai loro affari con più impegno di prima.