A ben vedere ci hanno provato quasi tutti i dirigenti post comunisti, ex comunisti, para comunisti, finto comunisti, diciamo da Massimo D’Alema fino a Matteo Renzi, a resuscitarlo dalle sue ceneri costose. Ci hanno provato Fausto Bertinotti, Luciano Violante, Giorgio Napolitano e a bienni alterni pure Goffredo Bettini, il più guru di tutti. Perché? Quale ossessione li muove? Quale complesso di rapinosa emulazione li sospinge? Quale dialettico contrasto tra la ragionevole repulsione e l’innamoramento involontario li convince a tornare sempre dove la loro storia si incagliò? Più o meno in fondo al parco di Arcore. Nel punto in cui atterra l’elicottero degli ospiti. E con il cappello in mano.
Se fosse mai possibile stendere la nomenklatura Pd sul lettino dello psichiatra, oltre alle lacrime per la propria infanzia, prima o poi salterebbe fuori il fantasma sorridente del dottor Berlusconi Silvio, quello dell’iconografia classica, in doppiopetto Caraceni da epopea brianzola con il portafoglio gonfio di promesse, e tutte le cattive amicizie al seguito, i socialisti ladroni, il massone aretino con il fido bancario incorporato, i mafiosi travestiti da segretario personale e da stalliere, le maggiorate a tassametro, la televisione commerciale addetta alla diseducazione sentimentale degli italiani. E poi la valigetta con dentro il kit del candidato, due paginette di programma politico, “Questo è il Paese che amo”, ma specialmente la cravatta di finta seta e la finta stilografica. Cioè l’inizio della fine della politica. Sostituita dallo Spettacolo.
Cominciò Spezzaferro, volpe del Tavoliere, progettando, in ossequio al Cavaliere, addirittura un governo Maccanico & Necci, di geometrica potenza, visti la squadra e il compasso impiegati per far fuori il neonato Ulivo di Romano Prodi. E continuò visitando per primo gli arredi della Fininvest, reduci dalla piena e acclamata illegalità per definirli “patrimonio del Paese”, forse senza neanche immaginare quanto fosse pertinente quella definizione nella patria dell’evasione fiscale generalizzata, delle quattro mafie e dell’anomia di massa. Ma non per rallegrarsene.
Continuò Bertinotti che trovando B. “tanto simpatico”, antipatizzò con Prodi fino a perfezionare il complotto della sua caduta. Poi toccò a Violante che intestò al partito il vanto di avere “data piena garanzia all’onorevole Berlusconi” che mai sarebbe stata varata una legge sul conflitto di interessi, auspicando, dopo le riforme costituzionali, il premio dell’amnistia. Napolitano al Quirinale fece ancora meglio. A fine 2010, quando B. e il suo governo sembravano spacciati, concesse addirittura un mese di tempo per riorganizzarsi. Che B. impiegò per comprarsi una manciata di parlamentari, durare un anno di più.
Poi venne la stagione di Matteo Renzi, non per nulla nato tra le luci di Rete 4 e il grembo di Mike. E da ometto, pellegrino in villa. Dagli antichi fasti della Bicamerale apparecchiata da Gianni Letta sulle spalle di D’Alema, estrasse l’essenziale. Elaborando con l’amico Verdini, nuovo pontiere di Berlusconi, il sofisticato patto del Nazareno che diceva più o meno: facciamo a metà di tutto. Ora tocca a Goffredo Bettini portare nel Mausoleo, dove sveglissimo riposa l’arcoriano, la nuova pergamena delle larghe intese. “Patto di maggioranza o sarà naufragio”, recita stavolta la formula dell’eterna ossessione.
Possibile non abbiano ancora la voglia e la forza di staccarsi da quel fantasma? Incapaci anche oggi di immaginare un modo e un mondo non sottomesso a quel “ciarpame senza pudore” che è stata l’epopea berlusconiana. Perché? Suggerisce la psicopolitica che forse accade per la ragione più semplice e cioè che molti di loro siano fin troppo disponibili a considerarla uno specchio dentro cui giocare e non un baratro.