Il 22 febbraio 2012, un mercoledì, accendendo distrattamente la tv fui travolta dalla notizia dell’uccisione di Marie Colvin, una tra le più esperte inviate di guerra, corrispondente del Sunday Times che avevo conosciuto in Afghanistan. Determinata, precisa, coraggiosa, era stata uccisa da un missile che aveva colpito in pieno l’edificio di Homs in Siria dove Marie si trovava con il collega francese Remi Ochlik. Un omicidio non casuale, hanno detto in molti, una vendetta contro le sue corrispondenze sulla guerra civile siriana. Marie Colvin era diventata un target e quella scritta Press sul suo giubbino antiproiettile non era stata più sufficiente a proteggerla. La sua storia dimostra come i teatri di guerra siano diventati sempre più pericolosi per i giornalisti, non più visti come attori neutrali, ma figure scomode da eliminare e merce di scambio per le fazioni che si combattono. È successo a Giuliana Sgrena sequestrata in Iraq, una delle inviate di guerra raccontate nella collana al femminile di Graphic Journalism: Donne sul fronte. Storie di giornaliste, conflitti e frontiere. Sette volumi scritti da croniste per rendere omaggio all’impegno delle inviate di guerra e fare una riflessione sugli orrori che tutti i conflitti racchiudono. War correspondent, dicono gli inglesi, corrispondente di guerra, per indicare una professione una volta riservata solo agli uomini, ma che negli ultimi 20 anni ha visto l’arrivo di tante donne. In Italia è stata la grande Oriana Fallaci, con le sue cronache dal Vietnam, a fare da apripista a molte altre colleghe. Ed è proprio il volume dedicato alla Fallaci scritto da Eva Giovannini a uscire per primo in edicola oggi con il Fatto Quotidiano. La Fallaci del Vietnam. Indimenticabile l’immagine di lei che corre sull’Y Bridge con la macchina al collo sotto il fuoco dei vietcong. Era il 1972.
Nei sette volumi, nei quali le protagoniste raccontano conflitti da continenti diversi o vivono in Paesi carichi di tensioni politiche, non emerge mai la paura, ma il senso del dovere e la passione per un mestiere che ti chiede tanto, ma ti ridà anche tanto. Ti rende testimone di pagine di storia memorabili, ti fa sentire il peso della responsabilità di cercare la verità contro le fake news, che una volta si chiamavano propaganda.
Alcune inviate hanno perso la vita nel cercare la verità e i loro assassini non sono mai stati trovati. Stiamo ancora aspettando di conoscere chi ha ordinato l’omicidio di Ilaria Alpi, giornalista Rai che insieme a Milan Hrovatin nel 1994 è stata brutalmente uccisa in un agguato in Somalia mentre stava indagando su un presunto traffico illegale di rifiuti tossici in cambio di armi. Intrighi inconfessabili che Ilaria cercò di svelare come vedremo nel secondo volume della collana.
Attraverso gli occhi di Barbara Schiavulli, inviata a lungo a Kabul e protagonista di un altro volume, c’è il racconto dell’orgoglio di un popolo che mai nessuno è riuscito a domare. Non esiste un teatro di guerra dove non si rischi di essere uccisi nei combattimenti, sequestrati o assassinati o imprigionati, e se si è donne si rischia anche di essere stuprate. Lo sanno bene le vittime ruandesi della violenza scatenatasi in Rwanda durante il tragico genocidio del 1994 raccontato nel volume scritto da Martina di Pirro che rievoca gli orrori di quel massacro tra hutu e tutsi costato la vita a un milione di persone in tre mesi. Ma non c’è bisogno di stare dove cadono le bombe per essere in guerra, è sufficiente vivere in un Paese con un regime autoritario per ritrovarsi nei panni del nemico, come ci insegna l’esperienza di Zehra Dogan giornalista e artista curda, finita dietro le sbarre per tre anni, solo per avere realizzato un dipinto che non è piaciuto al presidente turco Erdogan. Con lei, protagonista di un altro volume, sono finite in carcere la scrittrice Asli Erdogan e la dottoressa Sebnem Korur Fincanci accusate di fare propaganda terroristica a favore del popolo curdo, e tanti altri giornalisti prigionieri politici che tuttora languono nelle prigioni turche.
Le donne raccontano la guerra con occhi diversi? Penso di sì. Sicuramente non esaltano l’aspetto bellico e la precisione dei bombardamenti chirurgici che appassionano tanti colleghi che ho incontrato nelle zone di crisi del pianeta. Le corrispondenti di guerra hanno sempre uno sguardo empatico anche sull’umanità dolente che paga il prezzo delle bombe che colpiscono le loro case e distruggono i loro villaggi. Donne, bambini ai quali le inviate danno voce, perché si immedesimano nel loro dolore e nella loro disperazione, come spiega il volume scritto da Francesca Mannocchi, giornalista freelance in Siria, che mostra gli orrori del conflitto attraverso gli occhi dei bambini siriani, grazie anche ai preziosi disegni di Diala Brisly, cresciuta nel conflitto e nel dolore che l’ha costretta ad andar via da Damasco.