“Smettiamola di pensare che la violenza sulle donne sia un problema delle donne: riguarda la società, ma soprattutto gli uomini, che dovrebbero parlarne tra loro, compiere azioni concrete e metterci la faccia”. E lui ha scelto di mettercela, la faccia: Vinicio Marchioni – attore di cinema, di teatro, di fiction e regista di opere da tutto esaurito come Uno zio Vanja – sta lavorando alla direzione di un monologo sulla violenza sulle donne scritto interamente da sua moglie, l’attrice Milena Mancini (La terra dell’abbastanza, Bangla, A mano disarmata, solo per citare gli ultimi lavori sul grande schermo). “Ogni giorno nel mondo muoiono 137 donne. In Italia ne muoiono 133 ogni anno. Nell’80% dei casi l’aggressore è un uomo che ha le chiavi di casa”: questo il prologo di uno spettacolo che vedrà la luce nel 2021, ma che non sarà una “tragedia”: “Sarò una donna di quarant’anni che ricorderà il suo passato – spiega Mancini al Fatto Quotidiano –, lo rielaborerà, ricorderà il tempo in cui ci si relazionava agli altri in modo diverso. Attraverso una storia, spero di dar voce a tutte le donne che hanno subito violenza”.
La coppia, unita nella vita da molti anni, ha lavorato spesso insieme a teatro. Durante i mesi di stop forzato, ha sentito l’urgenza di studiare ciò che stava accadendo in molte case italiane: “I numeri sugli uomini maltrattanti ci hanno impressionato, spaventato – spiegano all’unisono Milena e Vinicio –. Sono venuti fuori una grande rabbia e il desiderio di mettere in scena un tema che rappresenta un’urgenza per la società”. “Di solito gli uomini percepiscono come una lamentazione qualsiasi frase femminile che riguardi la violenza – prosegue Marchioni –; se ne fa un discorso di genere. E invece dovremmo pensare che sono azioni contro l’umanità, ci riguardano tutti. E allora tutti dobbiamo parlarne, esporci in prima persona. Perciò curerò la regia di questo spettacolo scritto e interpretato da mia moglie: sarà il contributo maschile a un problema sociale”.
Potrebbe non essere semplice trasporre un tema così importante, delicato e serio su un palcoscenico. E il rischio di cadere nella retorica è sempre in agguato. Da qui la scelta di non farne solo un dramma da fazzoletto. “Nella direzione di Vinicio c’è sempre il tentativo di coinvolgere lo spettatore, anche per evitare il rischio dell’autoreferenzialità – continua Mancini –. Alcune sue regie di monologhi precedenti toccavano temi complessi, come il cancro e i diritti civili. Ma mio marito cerca sempre la chiave per garantire al pubblico la possibilità di godere dello spettacolo”. E quindi vedremo una scenografia importante, musica, molti cambi d’abito. “Se tratti questo tema in maniera troppo autoriale, c’è il rischio che rimanga di nicchia – ancora Marchioni –. Invece vorremmo che arrivasse a tutti: durante lo spettacolo ci sarà pure modo di ridere. Stiamo ragionando su un titolo che non lasci intravvedere nulla. Questa donna dovrà inscenare più donne possibile, anche se sarà il racconto della sua quotidianità. Vorremmo che fosse un omaggio a tutte coloro che hanno subito violenza o sono state addirittura uccise. Quei volti che finiscono nei trafiletti sulle cronache dei giornali e che sui social si scrollano con facilità e si dimenticano presto. Non sappiamo mai che fine fa chi ha commesso l’omicidio, come stanno i figli di queste donne, i loro genitori, i loro fratelli. Ed essendo una società che va velocissima e velocissimamente dimentica le cose, è come se queste donne non fossero neanche esistite”.
Ma perché gli uomini sono violenti? “Non dobbiamo pensare solo alla violenza fisica – commenta l’attrice –, esiste quella verbale, che viene dalla società, dalla famiglia, dagli amici. Si è perso il senso della ‘cura’ nei confronti dell’universo femminile. Noi ci siamo emancipate, abbiamo assunto ruoli importanti, siamo indipendenti; ma non per questo non ci piace ricevere dei fiori. Un esempio che farà sorridere: una donna si rinnova ogni mese, con le mestruazioni, che io trovo essere una forza di rinascita, di adattamento ai cicli della natura, mentre gli uomini vedono solo che siamo nervose. Non credo non capiscano, è che hanno una capacità di adattamento diversa”.
Entrambi gli artisti sanno bene, dunque, che la violenza non si combatte soltanto con la repressione: “La cultura ha il compito di aprire gli occhi alle nuove generazioni – conclude Mancini – ed è per questo che non si deve fermare. C’è una possibilità che lo spettacolo vada in scena nella tarda primavera del prossimo anno, se le condizioni della pandemia lo permetteranno; altrimenti studieremo un modo per farlo arrivare comunque al pubblico”.
“La cultura è anche quello che insegniamo ai nostri figli – chiosa Marchioni –: partiamo dal rispetto, dalla galanteria (che non è un sostantivo preso da un romanzo di Tomasi di Lampedusa), dall’educazione nei confronti di una e quindi di tutte le donne. La famiglia e la scuola sono determinanti. Dovrebbero essere principi basilari, ma siccome proveniamo da una cultura patriarcale, sembra che la violenza ce la portiamo nel dna. Per non parlare della Chiesa e della sudditanza donna-uomo prevista dai testi sacri. Però, come oggi sta andando in crisi qualsiasi sistema, dovremmo avere il coraggio di scardinare anche questo. Come? Con la cultura, che è la grande arte di mettere in discussione le nostre vite. Altrimenti rimaniamo attaccati al concetto che la donna deve cucinare e l’uomo andare a zappare la terra”.