L’ultimo tango di Diego. Anche se non improvviso, un colpo al cuore: in tutti i sensi, per tutti i sentimenti. Per chi lo ha amato, dall’Argentina a Napoli, per chi lo ha, semplicemente, ammirato. E per i tanti Amleti in perenne in bilico fra l’immensità del campione e la fragilità dell’uomo.
Il 30 ottobre aveva compiuto 60 anni. L’avevamo celebrato con il calore che dedichiamo, spesso, alle ricorrenze tonde e con l’ansia che, dalla sua Camelot, le notizie sulla salute agitavano. Sembrava depresso, venne operato d’urgenza al cervello. E poi, ieri, lo strappo. Forte crisi respiratoria. Si è spento come una candela, lui che è stato fuoco: sempre, fino alla fine.
Diego ha vissuto cento vite in una. Si è speso e spremuto sino all’ultima goccia, ci ha regalato molto meno di quanto non si sia tolto con la droga, anche se a noi sembra comunque un’enormità. È inutile chiedere o chiederci cosa avrebbe fatto se si fosse fatto di meno. Gli “eletti”, e lui lo è stato, considerano la banalità del bene una camicia di forza, ed è così che si perdono, a volte, dopo averci sedotto e frequentato.
Ho avuto la fortuna e il privilegio di seguirlo ai tempi del Napoli e dell’Argentina “campeon”. Le opinioni sono soggettive, e mai vanno considerate giudizi universali: a maggior ragione, se legate a epoche diverse, a pianeti lontani. In attesa che Leo Messi e Cristiano Ronaldo concludano la carriera e si presentino in sala “peso”, Diego per me è stato il più grande. Più grande addirittura di Pelé, che pure ha vinto tre Mondiali (a uno) ed era più completo. Maradona era più “totale”: leader, uomo-chiave e uomo-squadra, etichette che non sempre combaciano. Senza Nilton Santos, Didì o Garrincha a reggergli lo strascico.
Fidatevi: sul campo era un esempio. In caso contrario, i primi a ripudiarlo sarebbero stati i compagni. La punizione indiretta contro la Juventus al San Paolo, la ladrata di mano e l’esplosione atletica, estetica e tecnica contro gli inglesi in Messico: se dovessi tracciare dei confini, sceglierei questi.
Nacque povero e povero crebbe a Villa Fiorito, periferia di Buenos Aires. Povero ma ricco, dentro, della grazia di un Dio dissipatore. I campioni hanno bisogno di una squadra; i geni, come Diego, di un pallone. Chi scrive, ha sempre avuto un debole per i numeri dieci, a cominciare da Omar Sivori, “papà” del Pibe e “nonno” di Messi. Uomini di sinistro. Iniziò nei campetti oscuri e polverosi di Baires, palleggiava negli intervalli delle partite, diventò simbolo e bilancia. Lo chiamavano il Pelusa.
Argentinos Juniors, Boca Juniors, Barcellona, Napoli e poi il tramonto, Siviglia, Newell’s Old Boys, ancora Boca. Maradona è stato fuoriclasse assoluto, “fuori” da tutto e da tutti, persino da Sepp Blatter e i suoi maneggi, puntualmente denunciati in largo e chiassoso anticipo sui blitz dell’Fbi. E Napoli, il Napoli: due scudetti, una Coppa Uefa, una Coppa Italia e una Supercoppa con la ciliegiona del 5-1 alla Juventus maifrediana. Un capo, sì, e un megafono. Con il popolo, e per il popolo: che fece felice a patto che lo lasciasse vivere e un po’ morire ai suoi ritmi, ai suoi eccessi.
Beccato all’antidoping del Mondiale ’94, anche perché avrebbe “rischiato” di vincerlo, lo usammo, si lasciò usare. Troppo generoso, e troppo imponente, per essere misurato con i nostri mediocri aggettivi, con le nostre ambigue classifiche. Di Maradona serbo un ricordo nitido. Era il maggio 1980, amichevole Inghilterra-Argentina a Wembley. A un certo punto, Diego dribblò un paio di “maestri” e disegnò la tela che avrebbe poi dipinto nel 1986, all’Azteca. Il tiro non gonfiò la rete: sfiorò il palo. E per questo, paradossalmente, gonfiò lo stadio. Tutti in piedi. Come se avesse segnato, come se avessimo sognato.
La differenza era proprio lì, tutta lì: segnare, far segnare e far sognare. Diego, a un prezzo che gli sfuggì dal sabba che fu la sua esistenza, ci è riuscito. E per andarsene ha scelto il 25 novembre. Come George Best, come Fidel Castro. Beato fra i ribelli.