Conte barcolla, ma non molla
“Come ho visto Conte da te? Stanco e teso, ma mi sarei stupito del contrario. Gli è caduto addosso un meteorite ed è naturale che sia stanco. Ricordiamoci che due anni e mezzo fa, quando fu scelto, molti lo ritenevano una sorta di reggimoccolo di Di Maio e Salvini. Molti lo detestano a prescindere, e sono gli stessi casi umani che di un’intervista di 50 minuti hanno notato solo i colpi di tosse. Dei poveretti.
Voglio dire tre cose. La prima è che, da giornalista, ho apprezzato che Conte non abbia posto veti e abbia dialogato con un giornalista “distante” come Sallusti. Dovrebbe essere la norma, ma in Italia non lo è. Chissà che certi politici che pongono veti sui giornalisti, come Salvini, Meloni e Renzi, non imparino qualcosa.
Poi: Conte mi è parso stanco, ma non arrendevole. “Barcolla ma non molla”. E infine: io non so se Conte sia un bravo politico, spero di sì, ma mi conforta he sia una brava persona. Di questi tempi non è poco. Montanelli, di Parri, diceva che fosse un “galantuomo”. Uno dei pochi in politica. Lo si può dire senz’altro anche di Conte: è un galantuomo. Non è tutto, ma di questi tempi è già abbastanza”.
Martedì a Otto e mezzo. Il video
Donne & spesa, programma Rai cancellato
Detto Fatto, il programma di RaiDue che ha mandato due giorni fa il servizio empio e vomitevole su come le donne debbano fare la spesa, è stato sospeso dalla Rai.
Una decisione ovvia, scontata e perfino tardiva.
Qualora ripartisse, e avesse ancora voglia di fornire al mondo tutorial idiotamente sessisti (interpretati per giunta da donne!), consiglio ai valenti autori di ispirarsi a questo maestro di stile. Lui sì, il Drugo, sa “fare la spesa in modo sensuale”.
(Che vergogna!)
Poi c’era Maradona, il 10
Queste parole non le ho scritte io. Le ha scritte un amico che stimo molto, e con cui ho lavorato e lavorerò spesso. Si chiama Matteo Corfiati. Queste parole non le ho scritte io. Ma – altezza e luogo di nascita a parte – è come se le avessi scritte io.
“Io da bambino volevo essere Jean Marie Pfaff. Aveva l’1. Ma ero troppo basso per fare il portiere. E comunque ho avuto la maglia di Terraneo, quello coi baffi.
Ho visto Wilkins allo stadio, con l’8. Mi sembrava che gli altri non lo cagassero, e allora lo cagavo io. Idolo.
Ammiravo Baresi. Il 6.
Ma quando giocavo nel campetto sotto casa c’era un gruppo di tossicodipendenti: mi chiamavano Caricola. Che boh, chissà perchè ed era anche della Juve e aveva il 5. E mi facevano i cori a bordo campo.
Loro maggiorenni, strafatti. Io quattro o forse undici anni, chi lo sa, comunque io lucidissimo e loro no. Alcuni sapevano che mia mamma aveva fatto l’assistente sociale e ogni tanto partiva il coro “as-sis-ten-te, as-sis-ten-te!”.
Uno, Remo, mi si avvicinava e mi ruttava nell’orecchio.
A volte si portavano via il pallone, facevano due palleggi e poi svenivano.
Alcuni me li trovavo la mattina, quando andavo a scuola, davanti al cancello di casa. Addormentati, siringa nel braccio.
Calcio, calcio e solo calcio. Per i bambini il calcio è amore.
Poi diventa passione. Il contrario della vita reale.
Se non ti piace non puoi capire, ma non è colpa tua.
Abitavo a Baggio, che poi il nome è un programma. Cioè, un cognome.
E lui, Robi, me lo ricordo alla Fiorentina anche con il 13 e il 15, poi Dino ha avuto il 4, anche l’11 ma allora avevo già i peli.
Imitavo Littbarski, che aveva le gambe storte dei calciatori, una faccia da fesso ma era alto più o meno quanto me, cioè poco. Quindi facevo l’ala e avevo il 7, anche se la faccia da fesso non penso di averla mai avuta. Spero. Magari dopo. Forse. No, dai.
Sognavo van Basten, ma lui aveva il 9, era Dio e al catechismo mi dicevano che il nome di Dio non si pronuncia invano.
Quindi lo chiamavo Marco. O Dio, e chissenefrega, e che quello là si chiamasse pure Marco.
Poi c’era Maradona.
Il 10”.
Matteo Corfiati
(La foto, invece, è per ringraziare una volta di più Marino Bartoletti per la diretta di ieri)
Così era Diego. Per Gianni minà
di Gianni Minà
Con Maradona il mio rapporto è stato sempre molto franco.
Io rispettavo il campione, il genio del pallone, ma anche l’uomo, sul quale sapevo di non avere alcun diritto, solo perché lui era
un personaggio pubblico e io un giornalista.
Per questo credo lui abbia sempre rispettato anche i miei diritti e la mia esigenza, a volte, di proporgli domande scabrose.
So che la comunicazione moderna spesso crede di poter disporre di un campione, di un artista soltanto perché la sua fama lo obbligherebbe a dire sempre di sì alle presunte esigenze
giornalistiche e commerciali dell’industria dei media.
Maradona, che ha spesso rifiutato questa logica ambigua, è stato tante volte criminalizzato.
Una sorte che non è toccata invece, per esempio, a Platini, che come Diego ha detto sempre no a questa arroganza del giornalismo moderno, ma ha avuto l’accortezza di non farlo brutalmente, muro contro muro, bensì annunciando, magari con un sorriso sarcastico, al cronista prepotente o pettegolo “dopo quello che hai scritto oggi, sei squalificato per sei mesi. Torna da me al compimento di questo tempo.”
Era sicuro, l’ironico francese, che non solo il suo interlocutore assalito dall’imbarazzo non avrebbe replicato, ma che la Juventus lo avrebbe protetto da qualunque successiva polemica.
A Maradona questa tutela a Napoli non è stata concessa, anzi, per tentare di non pagargli gli ultimi due anni di contratto, malgrado le tante vittorie che aveva regalato in pochi anni agli azzurri, nel
1991 gli fu preparata una bella trappola nelle operazioni antidoping successive a una partita con il Bari, in modo che fosse costretto ad andarsene dall’ Italia rapidamente.
Eppure nessuno, né il presidente Ferlaino, né i suoi compagni (che per questo ancora adesso lo adorano) né i giornalisti,
né il pubblico di Napoli, hanno mai avuto motivo di dubitare della lealtà di Diego.
Io, in questo breve ricordo, a conferma di questa affermazione, voglio segnalare un semplice episodio riguardante il nostro rapporto di reciproco rispetto.
Per i Mondiali del ’90, con l’aiuto del direttore di Rai Uno Carlo Fuscagni, mi ero ritagliato uno spazio la notte, dopo l’ultimo telegiornale, dove proponevo ritratti o testimonianze dell’evento
in corso, al di fuori delle solite banalità tecniche o tattiche. Questa piccola trasmissione intitolata “Zona Cesarini”, aveva suscitato però il fastidio dei giovani cronisti d’assalto (diciamo così…) che
occupavano, in quella stagione, senza smalto, tutto lo spazio possibile ad ogni ora del giorno e della notte. La circostanza non era sfuggita a Maradona ed era stata sufficiente per avere tutta la sua simpatia e collaborazione.
Così, nel pomeriggio prima della semifinale Argentina-Italia, allo stadio di Fuorigrotta di Napoli, davanti a un pubblico diviso fra l’amore per la nostra nazionale e la passione per lui, Diego,
mi promise per telefono: “Comunque vada verrò al tuo microfono a darti il mio commento. E tengo a precisare, solo al tuo microfono.”
La partita andò come tutti sanno. Gol di Schillaci e pareggio di Caniggia per un’uscita un po’ avventata di Zenga.
Poi supplementari e calci di rigore con l’ultimo, quello fondamentale, messo a segno proprio da quello che i napoletani chiamavano ormai “Isso”, cioè Lui, il Dio del pallone.
L’atmosfera rifletteva un grande disagio. Maradona, per la seconda volta in quattro anni, aveva riportato un’Argentina peggiore di quella del Messico, alla finale di un Mondiale che la Germania, qualche giorno dopo, gli avrebbe sottratto per un rigore regalato dall’arbitro messicano Codesal, genero del vicepresidente della Fifa Guillermo Cañedo, sodale di Havelange, il presidente brasiliano del massimo ente calcistico, che non avrebbe sopportato due vittorie di seguito dell’Argentina, durante l’ultima parte della sua gestione.
C’erano tutte le possibilità, quindi, che Maradona disertasse l’appuntamento. E invece non avevo fatto a tempo a scendere negli spogliatoi, che dall’enorme porta che divideva gli stanzoni
delle docce dalle salette delle tv, comparve, in tenuta da gioco, sporco di fango e erba, Diego, che chiedeva di me, dribblando perfino i colleghi argentini. C’era, è vero, nel suo sguardo,
un’espressione un po’ ironica di sfida e di rivalsa verso un ambiente che in quel Mondiale, non gli aveva perdonato nulla, ma c’era anche il suo culto per la lealtà che, per esempio, lo aveva fatto
espellere dal campo solo un paio di volte in quasi vent’anni di calcio.
Cominciammo l’intervista, la più ambita al mondo in quel momento, da qualunque network.
Era un programma registrato che doveva andare in onda mezz’ora dopo, perché più di trent’anni di Rai non mi avevano fatto “meritare” l’onore della diretta, concessa invece al cicaleggio più inutile.
Ma a metà del lavoro eravamo stati interrotti brutalmente non tanto da Galeazzi (al quale per l’incombente tg Diego concesse un paio di battute) ma da alcuni di quei cronisti d’assalto che già
giudicavano la Rai cosa propria e che pur avendo una postazione vicina ai pullman delle squadre, volevano accaparrarsi anche quella dove io stavo intervistando Maradona. El Pibe de Oro fu
tranciante: “Sono qui per parlare con Minà. Sono d’accordo con lui da ieri. Se avete bisogno di me prendete contatto con l’ufficio stampa della Nazionale argentina. Se ci sarà tempo vi accorderemo qualche minuto.” Aspettò in piedi, vicino a me, che terminasse l’intervista con un impavido dirigente del calcio italiano, disposto a parlare in quella serata di desolazione, poi si risedette, battemmo un nuovo ciak e terminammo il nostro dialogo interrotto. Quella testimonianza speciale, di circa venti minuti, fu richiesta anche dai colleghi argentini, e andò in onda (riannodate le due parti) dopo il telegiornale della notte.
Fu un’intervista unica e giornalisticamente irripetibile, solo per l’abitudine di Diego Maradona a mantenere le parole date.
Lo stesso aveva fatto per i Mondiali americani del ’94 quando aveva accettato per due volte di ritornare all’attività agonistica in nazionale prima per assicurare la partecipazione alla querida
Argentina nel match di spareggio contro l’Australia e poi giocando tre partite all’inizio dei Mondiali stessi, prima che lo fermassero. Eppure, val la pena ricordarlo, nel momento in cui, con un’accusa
ridicola era stato sospeso per doping dopo le prime due partite.
La Federazione del suo amato paese non aveva mandato nemmeno un avvocato a respingere legalmente l’imputazione che non stava in piedi: “Hanno preferito trafiggere con un coltello il cuore di un bambino” aveva commentato Fernando Signorini, il suo allenatore e consigliere, quando la mattina dopo ci eravamo incontrati.
L’intervista da un motel dove aveva soggiornato con i parenti l’avevo ottenuta io. I giapponesi l’avevano mandata in diretta e i francesi in differita, un po’ di ore dopo, non credendola
possibile.
Così, insomma, questo modo di comportarsi da grande e da piccino lo ha portato a superare ogni avversità e pericoli – anche quelli che sembravano impossibili – della sua esistenza.
Dalla polvere di Villa Fiorito, nella provincia di Buenos Aires, dove è cominciata la sua avventura di più grande calciatore mai nato alla militanza politica nei partiti progressisti latinoamericani per i quali
ha dato molte volte la propria faccia.
Nessun calciatore è mai arrivato a tanto.
Diego, per una ironia del destino, se n’è andato da questo mondo lo stesso giorno di un altro gigante, Fidel Castro.
Alla fine li rimpiangeremo, come succede a chi ha lasciato una traccia indelebile nel gioco del calcio e della vita.
E ora silenzio.
Il suo prezzo al mondo del pallone lo ha pagato da tempo”.
Gianni Minà
Gli insulti, le fake news e le classifiche in rete
“È uscita una classifica sui 10 italiani più influenti e potenti sui social. Al quinto posto c’è Vacchi, al decimo c’è Conte. Questo fa capire molto degli italiani in Rete.
Perché gli insulti e le fake news? Perché molti vanno in rete per sfogarsi. Perché l’insulto, per molti, è “libero”. Perché non esiste una legislazione che punisca duramente chi insulta e minaccia in Rete. E perché troppi politici di destra alimentano questa violenza verbale inaccettabile”.
Ieri a Otto e mezzo. Il video
La destra sugli sci
“L’opposizione che vuole riaprire le stazioni sciistiche è insopportabile e inaccettabile. Sono gli stessi che volevano riaprire le discoteche. Follia pure. Per fare richieste simili dentro una pandemia mondiale devi essere demente, oppure politicamente scellerato. Francamente non ne posso più di questi atteggiamenti”.
Ieri a Otto e mezzo. Il video
Che bel modo per celebrare la giornata anti-violenze
Ora questo genio, consigliere comunale destrorso di Pavia, si è nuovamente consegnato alla leggenda. È arrivato a scrivere un post allucinante lamentandosi del fatto che, “per salvare poche migliaia di vecchietti”, i giovani come lui non possono divertirsi.
Povera stellina.
Poi il “Frasco”, coraggioso come un Don Abbondio irrisolto, ha come sempre cancellato il post, frignando e parlando di strumentalizzazioni. Ovviamente Lega, Fdi e liste civiche gli hanno confermato la fiducia.
Abbiamo davvero una destra troppo spesso vomitevole. Alla prossima cazzata, “Frasco”. Ormai sei a Pirlo titolo il Gasparri debole del pavese!
Così Vittorio Feltri oggi su Libero. Un altro che, nel mio libro sui “peggiori”, ovviamente c’è.
A molti Feltri fa sorridere. A me no: queste parole mi fanno solo schifo.
Il senatore, che conosce la Calabria come pochi e si batte per essa come pochissimi, sta verosimilmente pagando il suo approccio antipatizzante nei confronti di Di Maio e certi attacchi “gilettiani” a Bonafede. A proposito di Giletti, tra gli errori di Morra c’è anche la telefonata di due sere fa a Non è l’Arena. Cercare di intervenire al telefono in un programma di Giletti e uscirne bene senza chiamarsi Salvini e Meloni è una perversione ben strana, che mesi fa aveva contraddistinto pure Bonafede. Morra ha poi sbagliato a vantarsi per essere diventato “trend topic su Twiitter”, perché per divenire “trending” (non “trend”) topic in quel social morto e sepolto chiamato Twitter bastano poche decine di tweet vomitati dai soliti imbecilli fascisti (e derivati). Non è certo un vanto.
Soprattutto: Morra ha sbagliato nel definire la Calabria “irrecuperabile” e nel citare Jole Santelli nella famigerata intervista a Radio Capital. Ha sbagliato non certo perché abbia insultato calabresi, Santelli e malati oncologici: non lo ha mai fatto, e chi asserisce il contrario o è scemo o intellettualmente disonestissimo. Ha sbagliato perché ha prestato il fianco alle polemiche becere dei Mulè e dei Tajani, dei Salvini (che lo ha definito “cretino”) e delle Meloni (che ha attaccato la classe dirigente grillina dimenticandosi dei non pochi esponenti d Fratelli d’Italia con pendenze giuridiche).
Ciò detto, il (non) “caso Morra” è oltremodo avvilente. Morra ha insultato Jole Santelli? No: ha detto che la rispettava umanamente, ma che politicamente erano agli antipodi. Aggiungendo, ed è vero, che i calabresi che l’hanno votata sapevano quanto fosse purtroppo malata. Morra ha insultato tutti i calabresi? No: ha detto che chi ha votato Tallini, ora agli arresti domiciliari con accuse devastanti, non può certo lamentarsi. Affermazione sacrosanta: è ora di finirla con queste analisi sempre autoassolutorie degli elettori. Se voti Tallini, Fontana o chi volete voi, poi non puoi certo prendertela con la politica cattivona.
Proprio Morra si sgola da anni nel raccontare chi sia Tallini, ritenuto “impresentabile” dalla Commissione Antimafia pochi giorni prima delle elezioni regionali. Con quali risultati? Nessuno. La destra ha fatto finta di nulla (Sgarbi ne celebrò le lodi attaccando proprio Morra) e Tallini a Catanzaro è risultato il candidato più votato. Morra ha insultato i malati oncologici? No: è la ‘ndrangheta a voler casomai lucrare sui farmaci antitumorali. Quella ‘ndrangheta che, stando alle intercettazioni, di Tallini non pare aver disistima.
Davvero: di cosa diavolo stiamo parlando da giorni? Che colpe avrebbe Morra? Il centrodestra diserterà la commissione antimafia? Sai che novità. Salvini, per dirne uno, la sta disertando deliberatamente da mesi sulla vicenda Arata (nonostante gli inviti di Morra). E per Forza Italia, ricordando chi l’ha fondata, quella commissione dovrebbe sempre apparire in qualche modo “aliena”.
È davvero tutto rovesciato. Ci rendiamo conto che, se Morra è ritenuto “moralmente indegno” al punto da non poter andare in Rai, Sgarbi andrebbe internato e Berlusconi spedito in Siberia? Ci rendiamo conto che, per molti, sono più gravi due parole (forse) sbagliate da un senatore incensurato che gli arresti e i crimini di un’impresentabile classe politica purtroppo al potere?
Siamo messi male. Anzi malissimo.
(sul Fatto Quotidiano)
Capita ogni giorno anche a me. Sui vaccini e, più in generale, su tutto. Il livello che stiamo raggiungendo è osceno e larga parte di questa gente andrebbe perseguire penalmente per mancanza di neuroni e abuso di violenza.
“Ne usciremo migliori”? Come no.
Si chiama Gregorio Martinelli Da Silva ed è consigliere comunale della Lega (daje!) a Bagno a Ripoli, ex capogruppo in consiglio comunale per il Carroccio.
Questo bel giuggiolone ha chiesto che venga istituita la giornata “dei cattolici eterosessuali”, a suo dire “discriminati” da leggi a favore degli omosessuali. I quali, sempre a suo dire, sarebbero “da condannare” anche se “non da punire”.
Un genio contemporaneo, che nel club della “congiura dei peggiori” sarebbe stato benissimo.
Come siamo messi male.
Sabato, al Web Marketing Festival di Rimini, ho fatto un piccolo monologo sulla pandemia. Eccolo (il video).