La più grande causa civile che il Fatto abbia mai subìto. Ce l’ha intentata Eni: non per un singolo articolo ritenuto diffamatorio, ma per l’intera produzione di articoli, inchieste, cronache politiche, interventi, commenti, perfino schede e calendari giudiziari riguardanti la compagnia petrolifera che abbiamo pubblicato negli ultimi anni.
Nelle 63 pagine dell’atto di citazione civile sono messi in fila ben 29 articoli, indicati come denigratori e diffamatori, tanto da meritare una richiesta di danni per 350 mila euro, a cui aggiungere una non precisata sanzione pecuniaria per il direttore del Fatto e una ridicola “restituzione dell’illecito arricchimento” che il nostro giornale avrebbe conseguito per il solo fatto di scrivere di Eni. Poi, censura finale: richiesta di rimuovere dal web tutti gli articoli del Fatto su Eni sgraditi a Eni.
È un attacco mai visto che proviene dalla potentissima compagnia petrolifera italiana, che – non dimentichiamolo – è a controllo pubblico. E che si aggiunge a una causa da 5 milioni per il libro di Claudio Gatti Enigate (Paper First). Eni è da sempre una grande protagonista delle cronache italiane e internazionali: economiche, finanziarie, politiche, giudiziarie. Fin dai tempi delle vicende Eni-Petromin, conto Protezione, Eni-Sai, Enimont. Anzi, fin dai tempi del suo fondatore, Enrico Mattei (incautamente richiamato nell’atto di citazione dai suoi attuali successori pro tempore, nani al confronto di un gigante forgiato nel fuoco della guerra partigiana ed eroe della ricostruzione italiana, che riusciva comunque a pronunciare frasi del tipo: “Io uso i partiti come taxi. Pago la corsa e scendo”. Tanto da meritarsi l’indimenticabile definizione di Montanelli: “L’incorruttibile corruttore”). Nel nostro meno epico presente, Eni è stata interessata da alcune grandi inchieste giudiziarie. Su presunte corruzioni internazionali in Algeria, in Nigeria, in Congo; su questioni ambientali in Basilicata; su un complesso “complotto” che sarebbe stato ordito per infangare un paio di membri del cda e intorbidare e rallentare le inchieste della Procura di Milano; sul conflitto d’interessi dell’attuale amministratore delegato, accusato di non aver comunicato che società estere, secondo la Procura di Milano riconducibili alla moglie, hanno fornito servizi a Eni, incassando negli anni 300 milioni di dollari. È dunque normale che un giornale attento alla realtà abbia dedicato alla più strategica delle aziende italiane molti articoli, nessuno dei quali è mai stato ritenuto diffamatorio dalla compagnia al punto da rendere necessaria una querela.
Negli ultimi mesi c’è stato poi il dibattito pubblico sulla riconferma al vertice dell’amministratore delegato, imputato e indagato in due diverse inchieste giudiziarie. È quindi naturale che il Fatto abbia riservato a queste vicende la necessaria attenzione: per denunciare un conflitto d’interessi in famiglia che sarebbe inaccettabile in qualunque Paese civile; e per sostenere con vigore l’inopportunità della riconferma di Claudio Descalzi al vertice di una società a controllo pubblico.
È evidente che la richiamata “difesa della storia e delle origini di Eni” si fa non silenziando le inchieste giornalistiche, né promuovendo azioni giudiziarie che si concluderanno tra molti anni, ma ripulendo subito l’azienda dalle incrostazioni e chiudendo con personaggi compromessi, indagati, imputati, o semplicemente unfit, impresentabili per motivi reputazionali. A parlare di “tangenti e mazzette”, scandali e “complotti” – non certo invenzioni del Fatto – sono le autorità giudiziarie, che contestano ai vertici Eni, per esempio, la più grossa tangente mai indagata (1,092 miliardi di dollari che, secondo la Procura di Milano, sarebbero stati pagati per ottenere in Nigeria il campo petrolifero Opl 245). Il nostro giornale ha soltanto raccontato i fatti e allineato legittime opinioni, dando conto degli argomenti dell’accusa e di quelli della difesa. Non ha fatto “propaganda politica” (per chi?), non ha condotto una “campagna denigratoria e diffamatoria”, ma ha esercitato il diritto-dovere di informazione e di controllo sui beni pubblici garantito dalla Costituzione. Si chiama giornalismo, evidentemente insopportabile per Eni, abituata a essere trattata con reverenza dalla stampa in nome dell’“interesse nazionale” e degli ingenti investimenti pubblicitari distribuiti a giornali e tv. La compagnia sembra non sopportare cronache scomode e opinioni critiche. Così ha intentato una causa civile omnibus che rischia di diventare la replica della somma di tutti i procedimenti penali e civili già in corso a Milano e a Londra (dove è stata trascinata in giudizio dallo Stato della Nigeria). Tutto ciò dimostra quanto fossero ridicoli gli strepiti di chi ha scritto che, con il rinnovo del consiglio d’amministrazione, il Fatto aveva “conquistato Eni”, con l’arrivo come presidente della professoressa Lucia Calvosa, già componente indipendente del cda del Fatto. Stiano tranquilli, nei palazzi di San Donato: noi non ci lasceremo intimidire e, avendo come unico padrone i lettori, continueremo a fare il nostro mestiere che si chiama giornalismo.