Domina la convinzione che il successo del populismo respiri in sintonia con i rancori dei nuovi poveri, i ceti deboli tartassati dalla globalizzazione, le vittime della nuova manodopera a basso costo disponibile ai bordi di tutti i nostri confini o direttamente dentro i nostri Paesi spaesati, e insomma con gli esclusi dalla pacchia del consumismo di roba, roba, roba, per lo più robaccia, che è la meta dei loro desideri, aspirazioni, vite. Il risarcimento così tanto conturbante che li spinge a credere l’inverosimile e cioè che saranno proprio i miliardari come i Berlusconi o i Trump – più altre decine di tycoon epigoni – a occuparsi di loro e dei loro debiti. E che saranno i più carognoni, come i Salvini, gli Orbán, i Bolsonaro – e altre decine di autoritari epigoni – a vendicarli della penuria che li opprime.
Ma le cose stanno così solo a metà. E lo spiega in modo convincente Peter Turchin, visionario professore russo americano di questioni sociali, nella sua ultima ricerca The Real Class War Is Within The Rich, la vera lotta di classe è tra i ricchi. Titolo al quale avremmo volentieri aggiunto un “anche” per completezza di consuntivo. Dove racconta che le tensioni dentro le nostre turbolente democrazie che hanno prodotto il populismo in Europa, America, Russia, Brasile, eccetera, non sono cresciute soltanto a causa dell’impoverimento delle classi lavoratrici, ma anche per la “sovrapproduzione delle élite” cioè dei ceti alti e medio-alti della nostra scala sociale ai quali non è stata offerta – nell’euforia del liberismo trionfante – una quantità adeguata di lavori glamour e di opportunità coerenti con le loro aspettative. Non abbastanza da ripagare il tempo, i soldi, i desideri e la fatica impiegati nei molti anni della loro formazione professionale. Non solo la scuola, l’università, ma anche la specializzazione, magari all’estero, gli infiniti corsi aggiuntivi, gli infiniti aggiornamenti professionali per non diventare inservibili ai nuovi processi, alle nuove tecnologie, e cancellati dalla velocità delle macchine.
Così che questo sovrappiù di competenza, di fatica, di sforzi professionali, di attese – stiamo parlando di professori, avvocati, ingegneri, medici, dirigenti, d’azienda, creativi, addetti culturali, artisti, giornalisti – ha gonfiato le aspettative e moltiplicato le delusioni anche di quella classe abbiente svincolata dal bisogno, ma non dal desiderio di status, successo, soldi. Che diventa frustrazione davanti allo spettacolo quotidiano dei privilegi “esclusivi” dei vincenti da rotocalco. Per poi trasformarsi in rancore sociale. E il rancore in protesta elettorale nutrita da un diffuso senso di esclusione dalle élite maggiori che navigano dentro il potere, lo spettacolo, i media.
La Brexit, in Inghilterra, ha vinto nelle contee agricole benestanti, ancorché periferiche. A Liverpool, la città operaia più povera, ha vinto il Remain. Trump ha guadagnato consensi dividendo l’America non tra i ricchi e i poveri, ma tra “noi e loro”, la gente comune “autenticamente americana”, e l’establishment di Washington che progetta “la sostituzione etnica” per perfezionare il dominio.
È la ribellione dei ricchi non abbastanza ricchi. E stavolta non si tratta dell’antico “sovversivismo delle classi dirigenti” analizzato da Gramsci cento anni fa. Quella era una reazione all’egualitarismo che marciava insieme con le rivendicazioni sindacali, esistenziali, politiche del nuovo soggetto operaio della grande fabbrica. Oggi il rancore delle nuove classi dirigenti non si occupa di chi sta sotto di loro, ma di chi sta sopra. Avere di più, essere di più è l’aspirazione che preme, il modello di vita ripetuto nel milione di specchi sociali, fino allo stordimento. Il modello culturale che si fa largo (a spallate) tra tutti gli altri.