Cinque. È questo il numero delle grandi estinzioni che hanno caratterizzato la storia evolutiva del nostro pianeta fino ad oggi. È una storia molto lunga, che inizia tra i 4,4 e i 2,7 miliardi di anni fa. Da allora diverse forme di vita hanno popolato la Terra, molte si sono estinte, altre ancora sono comparse col tempo, spesso grazie al declino di altre. Con il termine “estinzione di massa” si intende una rapida scomparsa di un massiccio numero di specie viventi, che, in tempi geologici, può durare anche alcuni milioni di anni.
I paleontologi hanno così identificato l’estinzione ordoviciana, risalente a circa 445 milioni di anni fa, la prima ad aver coinvolto un cospicuo numero di forme viventi e che portò alla scomparsa del 49% dei generi marini. A questa segue poi quella che viene collocata alla fine del Devoniano e che provocò l’estinzione del 70% delle specie, a causa degli effetti dovuti alla comparsa dell’arborescenza, che innescarono un meccanismo a catena: riduzione della CO2 in atmosfera, indebolimento dell’effetto serra, intense glaciazioni. Da ciò possiamo capire come la Terra sia un sistema complesso e al contempo estremamente sensibile a ogni minima variazione, da cui l’umanità intera dipende.
I paleontologi collocano poi alla fine del Permiano, circa 250 milioni di anni fa, la più grande estinzione che il nostro pianeta abbia mai conosciuto, che portò alla scomparsa del 96% delle specie marine e del 70% dei vertebrati terrestri. Se fino a qualche mese fa questo evento, noto anche con il nome di “the Great Dying”, veniva considerato come la conseguenza di estese eruzioni vulcaniche in Siberia che hanno dato luogo ad un’enorme provincia magmatica, i cosiddetti trappi siberiani, una recente scoperta ha rivelato invece che il peggioramento delle condizioni climatiche sul pianeta fu causato in particolare dai combustibili fossili: immensi depositi di carbone e gas in Siberia sarebbero infatti stati bruciati una volta venuti a contatto con l’enorme quantità di magma eruttato, causando l’emissione di quantità inimmaginabili di anidride carbonica. E solo questo già ci suggerisce che continuare ad immettere CO2 in atmosfera ai ritmi attuali non è per nulla una buona idea.
All’estinzione permiana seguono poi l’estinzione tardo triassica (circa 200 milioni di anni fa) e quella forse più conosciuta, che portò alla fine dell’egemonia dei grandi rettili, l’estinzione della fine del Cretaceo. Spesso ci si chiede come i dinosauri, gli animali terrestri più grandi che il nostro pianeta abbia mai ospitato e che dominavano gli ecosistemi del Mesozoico, abbiano potuto 65 milioni di anni fa scomparire dalla faccia della Terra. Evidentemente l’essere grandi e dunque all’apice della catena alimentare fu proprio un punto a loro svantaggio. Come Darwin ci insegna, non è il più forte a sopravvivere, ma chi è in grado di adattarsi. Questo vale anche per l’uomo, il protagonista assoluto dell’epoca che gli scienziati hanno definito con il nome di “antropocene”, poiché profondamente marcata dall’attività antropica.
Sulla base di autorevoli studi sui cambiamenti climatici attuali, la comunità scientifica mondiale è ormai unanimemente concorde nell’affermare che l’umanità si trova sull’orlo della sesta estinzione di massa. Infatti, un aumento incontrollato della temperatura sul nostro pianeta porterebbe alla scomparsa della civiltà umana così come la conosciamo oggi. Ma gli effetti dell’inesorabile collasso climatico sono già sotto i nostri occhi: oggi il tasso di estinzione è 10.000 volte più alto rispetto alla media e solo negli ultimi 100 anni abbiamo perduto per sempre più di 27.600 specie viventi, un danno irreversibile alla biodiversità del pianeta che si ripercuoterà inevitabilmente sulla nostra stessa sopravvivenza.
Sembrerà fantascienza, ma purtroppo non lo è: a differenza delle cinque grandi estinzioni del passato, dovute principalmente ad eventi naturali, geologici o astronomici e della durata di alcune decine di migliaia di anni, l’uomo potrebbe realmente estinguersi in sole poche centinaia di anni. E si sta condannando a questa sorte con le sue stesse mani, continuando ostinatamente con il business as usual, un modello economico incompatibile con il pianeta e le sue risorse. Oggi estraiamo e bruciamo combustibili fossili – carbone, petrolio e gas – a una velocità impressionante ed emettiamo CO2 ad un tasso che è addirittura 14 volte superiore rispetto al periodo che ha portato alla grande estinzione del Cretaceo, avvicinandoci sempre più vertiginosamente al punto di non ritorno.
Gli scenari delineati dall’IPCC sono chiari ed inequivocabili: senza interventi globali urgenti e volti ad azzerare le emissioni di gas serra ci dirigiamo verso un pianeta fino a 7,1°C più caldo e si innescherebbe una reazione a catena una volta raggiunti i punti di non ritorno. Senza considerare i pericolosi feedback loops, ossia i fenomeni di retroazione, come l’accelerazione del riscaldamento globale dovuta a una minore quantità di ghiaccio che riflette i raggi solari. Secondo le migliori previsioni, ad oggi abbiamo il 66% di possibilità di restare sotto gli 1,5°C di riscaldamento, la soglia limite per evitare effetti irreversibili sul clima terrestre, oltre la quale l’umanità andrebbe inesorabilmente incontro all’estinzione.
Eppure sappiamo cosa è necessario fare per invertire la rotta. Ciò che manca è la mera volontà politica di mettere in atto una reale e non più rimandabile transizione ecologica su scala globale. La soluzione al problema esiste ed è anche incredibilmente conveniente, considerando che i costi per una mancata azione saranno decisamente più pesanti. Si tratta della più grande sfida che l’umanità si sia mai trovata ad affrontare, ma non per questo possiamo esimerci dall’affrontarla. Cari politici, siete rimasti senza scuse e noi siamo rimasti senza più tempo.