Una grande filosofa andalusa del Novecento raccontata da una grande scrittrice, finalista al Premio Strega: María Zambrano è la protagonista di “Non sono mai stata via”, scritto da Nadia Terranova per la casa editrice palermitana rueBallu (pagg. 80, € 18), ideata e curata da donne. “Una sintesi perfetta tra ragione e cuore, tra poesia e filosofia” recita la quarta di copertina del volume. E la stessa cosa si potrebbe scrivere del contributo che Terranova ha voluto regalare ai lettori di A parole nostre.
La vita è un susseguirsi di colpi di fulmine e uno di questi per me fu la filosofia, o la professoressa che la insegnava, se mai esista una differenza, a quindici anni, tra la disciplina e la sua ambasciatrice.
Ero appena arrivata in prima liceo da un quinto ginnasio finito con passione e fatica e di nuovo sentivo curiosità pulsante verso tutto. Ebbi la fortuna di un’insegnante superlativa, non canonica e da allora fu una salita, fino al commiato dopo la maturità. Per l’orale si sceglievano ancora le materie, scelsi filosofia, la prof invitò me e altre maturande a ripassare nelle settimane prima dell’esame, a casa sua, in un ombroso e fresco terrazzo, per contrastare l’afa siciliana che, incurante dei nostri doveri, ci aveva catapultate in un’irrimandabile estate. Eravamo tutte donne, l’insegnante e le allieve, e l’inevitabile intimità di quei pomeriggi mi è rimasta impressa a lungo: se Gianni Rodari ha scritto che un bambino non dovrebbe mai imparare piangendo ciò che può imparare ridendo, è vero anche che un adolescente non dovrebbe mai imparare svogliatamente ciò che, se studiato in un clima come quello, può scatenare una rivoluzione nella sua vita. Dopo la maturità, volli con ostinazione iscrivermi a filosofia. E anche allora, così come per tutto il liceo e perfino in quei pomeriggi di studio fra donne, mi ponevo l’inesprimibile domanda: come mai i nomi che studiavamo, del cui pensiero mi innamoravo, dall’età classica ai giorni nostri, erano tutti di uomini? Certo, c’erano delle eccezioni: l’ungherese Ágnes Heller, protagonista di un bellissimo corso di Filosofia Morale, Hannah Arendt, che incontrai a latere di un corso di Teoretica, o Simone de Beauvoir, che affascinava le mie letture private e infestava le mie notti insonni (lessi, di fila, i quattro volumi dell’autobiografia, Il secondo sesso e I mandarini). Ma per il resto, dov’erano le donne? La loro assenza era grottesca: ero iscritta a una facoltà in cui costituivano la maggioranza degli iscritti e dei docenti. Qua e là spuntavano nomi femminili su cui avrei voluto sapere di più, ma perlopiù sembravano espulse con volontà sistemica dalla storia della filosofia: potevo scorrere interi indici di manuali senza che ne fosse menzionata una, se non in scarni trafiletti sulla storia del pensiero femminile, quasi fosse un genere a parte o addirittura una malattia degenerativa. L’idea che ne ricavavo era che gli uomini riflettevano sulla conoscenza, sull’identità, sull’arte, mentre le donne, al massimo, potevano riflettere sull’essere donne.
Mi ci sono voluti anni prima di capire fino in fondo quanto pianificata sia stata la cancellazione dell’autorialità femminile dalle discipline del sapere, dalla politica, dall’arte, notando di volta in volta come indici marcatamente maschili ricorressero in tutti i manuali, dalla storia dell’architettura a quella della musica. E mi ci è voluto del tempo, ma non troppo, per sapere che, rispetto a quella disciplina che avevo studiato con tanta passione, sarei rimasta monca se le donne non me le fossi andate a cercare.
La vita è un susseguirsi di colpi di fulmine, dicevo, e uno di questi è stato María Zambrano. Dalla laurea erano passati anni, avevo pubblicato i primi libri e da tempo desideravo tornare alla filosofia, ma con gli strumenti della letteratura. Ai tempi delle mie letture esistenzialiste avevo letto I mandarini come fosse un saggio e Il secondo sesso come un romanzo (trovandovi, per altro, prime risposte alla storia della cancellazione delle donne). Il catalogo di rueBallu, incantevole casa editrice palermitana ideata e curata da donne, aveva una collana di cui mi piacevano l’idea, la carta, le illustrazioni: biografie come taccuini, eleganti libri chiusi da un piccolo elastico e grandi nomi raccontati da scrittrici e scrittori con passo lieve e intenso. La cena del cuore. Tredici parole per Emily Dickinson, di Beatrice Masini, mi aveva incantata e di lì avevo preso a collezionarli. Quando Antonella Bonanno, l’editrice, mi chiese di pensare a un libro, la scelta cadde insieme sul nome perfetto. La avvisai, però, che avrei potuto impiegare molto: Zambrano era per me un continente sconosciuto. La circumnavigavo da tempo, fiutando il viaggio da intraprendere. Ma il biglietto per quel viaggio, lo comprai in quel momento.
Da allora sono passati quattro anni, perché i libri hanno bisogno di lentezza, e alcuni più di altri. La lunga vita di Zambrano meritava un passo meditato e costante. Per anni, di nascosto da tutti e anche da me stessa, saccheggiavo dalla sua sterminata produzione, dai suoi epistolari, dai suoi saggi tra mistica, poesia e ragione, ricavando parole chiave che mi restavano addosso, a partire da “disnascere”, il verbo che Zambrano aveva inventato per raccontare il disfarsi della nascita e, insieme, il continuo gesto del mettersi al mondo. Ripercorrevo la sua vita, dalla bambina presa in braccio dal padre che vede il mondo da un’altezza innaturale, e in quel gesto altalenante, su e giù, trova il suo principio, l’origine del suo primo ricordo, alla donna anziana che finalmente, dopo l’esilio, fa ritorno in Spagna e, alla domanda se in tutti quegli anni le fosse mancato il suo paese, risponde con le parole più semplici, autentiche e commoventi: ma io non sono mai stata via. Seguivo Zambrano nel suo peregrinare, la spiavo a Parigi, nei suoi ritiri boscosi, nella casa piena di gatti a Roma, sempre seguita dall’ombra degli alberi di limoni, dal sole della sua Andalusia. Diventavo, insieme a lei, la studentessa timida e tenace, la sorella che piangeva un lutto terribile, la ragazza ribelle espulsa dalla dittatura franchista. Varcavo con lei ogni frontiera: portandola sulle spalle, e prendendo in braccio me stessa, fino alla quiete di chiari del bosco che infine, inafferrabili, sembravano illuminarci entrambe. Solo dopo quegli anni di studio e lettura mi sono messa a scrivere, e allora il racconto è fluito naturale, immediato. Nel frattempo, mi ero dimenticata di tutto, come dev’essere con la scrittura: dall’intenzione dello scrivere ero passata al dovere, dal volere alla necessità. Non potevo più rimandare.
E così, solo così, questo libro è potuto nascere: come il pomeriggio in più in quei raduni filosofici di sole donne. Come ciò che mi mancava, e non lo sapevo.