“Pinelli si rifiuta di rispondere alle domande. Gli interroganti ricorrono quindi a mezzi più forti e minacciano di buttarlo dalla finestra. Lo strattonano e lo costringono a sedere sul davanzale. A ogni risposta negativa, Pinelli viene spinto un po’ più verso il vuoto. Infine perde l’equilibrio e cade”. Chi racconta è il generale Gianadelio Maletti, già numero due del servizio segreto del ministero della Difesa, il Sid, tra il 1971 e il 1975. Oggi ha 99 anni, è stato condannato in via definitiva a 12 mesi di carcere per i depistaggi sulla strage di piazza Fontana ed è latitante in Sudafrica dal 1980.
Oggi, a 51 anni dai fatti, accetta di dire la sua. Lo fa in un file audio di cinque minuti che abbiamo raccolto la scorsa primavera durante la produzione del podcast d’inchiesta 121269 (Audible), dedicato alla strage di piazza Fontana. Maletti arriva al Sid due anni dopo la morte di Pinelli, dunque il suo racconto non nasce da una conoscenza diretta dei fatti, ma è una sua ipotesi. Getta comunque uno spiraglio di luce su uno degli episodi più bui e indegni della storia repubblicana: la morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato dal quarto piano della questura di Milano nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969.
Quando morì, Pino Pinelli aveva 41 anni, una moglie e due figlie piccole. Era stato fermato dal capo della squadra politica della questura Luigi Calabresi e dai suoi uomini nella serata del 12 dicembre, poche ore dopo l’esplosione della bomba alla Banca nazionale dell’agricoltura che uccise 17 persone e ne ferì quasi 90.
La strage era stata organizzata dai terroristi neofascisti di Ordine nuovo, ma questo lo si sarebbe accertato solo nel 2005, dopo 36 anni d’indagini e sette processi. Subito gli inquirenti avevano puntato a incastrare i militanti del mondo anarchico. Decine di attivisti libertari erano stati portati in questura per essere interrogati. Il ferroviere Pinelli – ex staffetta partigiana, cultore dell’esperanto e sostenitore della resistenza antifranchista in Spagna – ci rimase per oltre tre giorni. La sera del 15 dicembre, quando il suo fermo, non convalidato dai magistrati, era ormai diventato illegale, fu portato nell’ufficio di Calabresi per l’ultimo interrogatorio. Di fronte a lui c’erano almeno quattro funzionari di polizia e un tenente dei carabinieri. Poco dopo la mezzanotte, il corpo dell’anarchico si schiantò 20 metri più in basso, nel cortile del palazzo di via Fatebenefratelli.
A oggi, nessuno sa con precisione che cosa accadde in quella stanza. La prima versione ufficiale fu quella del suicidio: “Il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa”, dichiarò ai cronisti il questore Marcello Guida, “e si è lanciato nel vuoto”. Ci credettero in pochi: del resto, perché mai un innocente avrebbe dovuto uccidersi? Nel 1975 il giudice Gerardo D’Ambrosio archiviò il caso con una sentenza secondo la quale non si sarebbe trattato né di omicidio né di suicidio: Pino Pinelli, mentre era affacciato alla ringhiera, sarebbe stato colto da una “alterazione del centro d’equilibrio”, avrebbe avuto insomma un malore. Anche questa ricostruzione è stata più volte messa in dubbio, in primis dai compagni e dai familiari del ferroviere anarchico. Oggi le parole del generale Maletti sembrano dare loro ragione.
Giuseppe Pinelli, secondo quanto detto dall’ex dirigente degli 007 italiani, sarebbe stato vittima di un “incidente” causato dai suoi inquisitori “durante l’interrogatorio”. “La morte dell’anarchico non era voluta – racconta il generale – tutti i presenti furono colti da sgomento e apprensione. La verità non li avrebbe sottratti da gravi sanzioni penali. Perciò si impegnarono ad avallare, per il bene proprio e delle istituzioni, la tesi del suicidio”.
Tale scenario sarebbe stato confermato a Maletti dal maggiore dei carabinieri Giorgio Burlando, responsabile del centro di controspionaggio di Milano, dal colonnello Antonio Viezzer, capo della segreteria del “reparto D” del Sid, ma soprattutto dal generale Vito Miceli, che fu a capo del servizio segreto militare tra il 1970 e il 1974. Lo stesso Miceli, durante un colloquio col suo vice Maletti, avrebbe affermato, testualmente, “che la storia del suicidio di Pinelli era una bufala”.
Oggi due degli uomini che si trovavano in quella stanza della questura sono ancora vivi. Uno di loro, l’ex brigadiere Vito Panessa, intervistato per il podcast 121269, è riuscito a dire: “Pinelli quella notte se l’è cercata”.