L’Italia è un paese di ripartenze? Una rappresentazione dell’Italia del dopoguerra è offerta dal film Deserto rosso di Michelangelo Antonioni, ambientato a Ravenna, dove l’industrializzazione stava cambiando il territorio, e avviando quel legame, poi dipendenza e infine gabbia, col petrolchimico e le aziende che divennero il cuore produttivo della città. In pochi si interrogarono sulla possibilità di alternative.
E oggi esistono alternative? Quale ruolo avrà Eni per le sorti dell’area, del paese? In molte zone d’Italia rimane la memoria storica dell’azienda portatrice di occupazione e simbolo di rivincita nazionale. Quando l’impero di Eni iniziava ad estendere i suoi tentacoli, la popolazione acclamava la promessa di un’indipendenza energetica che sottraesse l’Italia al monopolio delle 7 sorelle.
Un’era presto volta al termine. Di fatto Eni stessa è diventata colonizzatrice nella terra dei colonizzatori. Ancora oggi nella sua avanzata si trascina dietro una scia di devastazioni ambientali, violazioni di diritti umani, processi per corruzione internazionale, nonchè quantità inimmaginabili di emissioni climalteranti, tanto da risultare trentesima nella lista delle compagnie che hanno emesso più anidride carbonica nel settore industriale dal 1985 al 2015, stando al Carbon Major Report.
Basterà una tecnologia come il CCS a riassorbire un simile passato, ma anche presente e probabilmente futuro?
Il CCS (carbon capture and storage) è una tecnica per stoccare il carbonio emesso da varie attività produttive, incanalato dopo la cattura in depositi, in questo caso, artificiali. Per Ravenna parliamo di giacimenti di metano esausti.
Sappiamo che si tratta di una tecnologia ancora in fase di ricerca, e che non esistono impianti in grado di stoccare quantità consistenti di CO2; l’impianto più grande attualmente in funzione si trova in Norvegia e cattura 700 mila tonnellate di CO2 l’anno, quando a pieno regime… su 42 miliardi che dovremmo assorbire ogni anno per contenere il surriscaldamento globale sotto al grado e mezzo secondo l’IPCC, una quantità destinata ad aumentare nel tempo.
Un investimento in progetti simili risulta vincolante per i prossimi decenni, ma allo stesso tempo incerto e, ancora, fossile.
Questo processo ha infatti lo scopo non dichiarato di sfruttare fino all’esaurimento totale i pozzi a fine vita, utilizzando la CO2 per estrarre gli idrocarburi imprigionati nelle rocce e far risalire la quantità rimanente.
Un particolare importante, nessuno è in grado di dire quale sia il reale costo del processo di CCS; l’unica certezza è che la riduzione delle emissioni “a monte” rispetto che “a valle”, cioè cambiando la tecnica di produzione dell’energia, comporta spese notevolmente maggiori e che invece di investire in tecniche simili sarebbe necessario tutelare quei sink naturali, suolo e oceani, sempre più depauperati della loro capacità di trattenere il carbonio.
Esemplare è stato il fallimento dei due programmi EEPR e NER300 con i quali l’UE indirizzava una parte dei 3,7 miliardi per lo sviluppo di energie alternative a dodici unità dimostrative di CCS. Al 2018 ancora nessuna era entrata in funzione (ad eccezione di una in Spagna, che però non svolgeva operazioni di CCS). La Corte dei Conti europea, in una relazione, ha rilevato l’insostenibilità economica della tecnologia, a causa della mancanza di un quadro normativo adatto e della lievitazione dei costi rispetto alle stime iniziali. E dunque, ad oggi, nessun impianto CCS si è rivelato economicamente vantaggioso… ecco perché Eni mira ai fondi pubblici del NextGenerationEU.
Se come sembra 12 mld dei 74,6 previsti dalla bozza del Recovery plan italiano per “rivoluzione verde e transizione ecologica” saranno impiegati per il progetto CCS di Ravenna, “il più grande del mondo” annunciava il premier Conte, perderemo una parte consistente dei fondi che potrebbero essere investiti nelle più prioritarie rinnovabili.
Se il governo italiano approverà il progetto di un colosso energetico come ENI che, con il sostegno della Regione Emilia Romagna, otterrà soldi europei, dimostrerà di non essere interessato, se non per slogan e greenwashing, ad abbattere realmente le emissioni.
Il progetto CCS non è un modo efficace per abbattere la CO2, ma un espediente per tenere in vita processi produttivi e di approvvigionamento energetico altamente emissivi, e che qualora venisse approvato, diventerebbe un pericoloso precedente che ENI, o altre compagnie, potrebbero replicare in altri siti in Italia. Eni già conta oltre 60 piattaforme offshore tra Ravenna e Cervia. La prima tappa ideale.
Come hanno dimostrato analoghe attività in altre aree, non è da escludere il rischio che lo stoccaggio possa provocare un progressivo incremento della sismicità nel territorio ravennate, che già presenta un rischio sismico medio-alto ed è soggetto a fenomeni di subsidenza;
In Emilia Romagna la Rete per l’emergenza climatica e ambientale è riuscita a far convergere oltre 70 realtà sul tema, e a costruire un nuovo fronte di opposizione in costante espansione, passando per la campagna NO CCS – il futuro non si (S)tocca! ideata insieme a Fridays For Future Italia. Venerdì 11 dicembre il primo appuntamento per il flash mob davanti alla sede della regione Emilia Romagna, al quale seguiranno mobilitazioni in tutta Italia il venerdì successivo e appuntamenti che troverete sulle pagine social della campagna.
Ricordando il finale di Deserto rosso: al contrario della pellicola di Antonioni non aspettatevi un inverno ma, men che meno, una primavera, silenziosi.