Nel cortile del Centro di studi sull’economia autosufficiente di Rasi Salai, sono riunite un centinaio di persone, tutte con la mascherina. “Oggi vi svelerò i segreti dell’allevamento delle rane”, annuncia un docente dell’università di Si Saket. Jai, di una Ong locale, prende appunti: “Ho già provato ad allevarne da solo, ma sono morte. Vorrei migliorarmi… Il budget per le Ong in Thailandia purtroppo è stato drasticamente tagliato dal colpo di Stato del 2014. Poi è arrivato il Covid-19. La sola cosa che ci resta da fare per sopravvivere è trasformare la nostra terra e produrre il nostro cibo”. Nel 1994, un muro di cemento alto 17 metri è stato edificato nelle acque del fiume Mun, a centro della seconda “zona umida” più vasta della Thailandia.
Queste distese verdi, che vengono sommerse nella stagione delle piogge, svolgono un ruolo cruciale nella regolazione della portata dei corsi d’acqua e sono molto fertili. Ubon Yoowah è consulente volontario presso il Centro di studi di Rasi Salai: “Chi ha costruito la diga non sapeva che le zone umide sono preziose nel sistema ecologico quanto le foreste e le mangrovie e che rappresentano uno spazio vitale per le persone”. Nel 1998, la Thailandia ha firmato la Convenzione di Ramsar, un trattato internazionale per salvare le zone umide di cui sono riconosciute “le funzioni ecologiche oltre che il valore economico, culturale e scientifico”. Questo riconoscimento è arrivato però troppo tardi per salvare l’ecosistema naturale della regione. La costruzione della diga e di un bacino di irrigazione ha causato l’allagamento di 16 mila ettari di terre e la fine brutale di uno stile di vita lungo tre secoli. Raiwan Ananuea, 48 anni, ricorda che quando era adolescente una dozzina di villaggi condividevano le abbondanti risorse di quella remota regione dell’Issan, nel nord-est della Thailandia: “Tutto l’anno potevamo coltivare riso, fagioli, cetrioli, patate, venivamo a raccogliere bambù, canapa e funghi, a coltivare miele e a far pascolare il bestiame. Poi la vita è diventata più dura”.
Al volante del suo vecchio pick-up, lungo il sentiero che attraversa quella che un tempo era una palude, a cavallo tra i distretti di Surin, Roi Et e Si Saket, Nawarat Siangsanan, giovane ricercatore, ci mostra l’entità dei danni. “Qui non ci viene più nessuno. È diventato un luogo selvaggio, dove crescono solo erbacce e i predatori mettono in pericolo la riproduzione dei pesci. Con la costruzione della diga, le zone umide sono inondate tutto l’anno. I grandi alberi sono marciti e sono stati abbattuti”. All’inizio degli anni 90, il governo thailandese ha lanciato quattordici progetti idrici sul Chi e sul Mun, i due fiumi più lunghi del paese, di cui uno a Rasi Salai. Finanziate dalla Banca Mondiale, queste infrastrutture dovevano servire a produrre elettricità, migliorare le capacità di irrigazione e creare posti di lavoro attraverso il programma Green Isan. Per Udon Yoowah è stato un fallimento: “La costruzione delle dighe è costata 24 milioni di euro, cinque volte più del budget inizialmente previsto. Il risarcimento agli abitanti del villaggio per la perdita delle terre ammonta a 55 milioni di euro, metà dei quali non sono ancora stati versati. Il paese è pieno di infrastrutture giganti mal progettate”. Le stazioni di pompaggio che avrebbero consentito agli agricoltori di irrigare i campi alti durante i periodi di siccità o di drenare l’acqua delle risaie nelle basse terre durante le inondazioni non sono mai state costruite. Bloccando il flusso del fiume per otto mesi all’anno, il bacino ha contribuito ad aumentare la salinità dell’acqua, inquinando le fonti di acqua potabile e uccidendo le piante di riso. “Nelle zone umide, le risaie rischiano di essere allagate da un momento all’altro quando le chiuse vengono aperte senza preavviso – spiega il capo del villaggio di Nongsam, Udon Samrai –. Prima che la diga fosse costruita, coltivavamo due volte l’anno nelle zone umide e nei campi in collina. Ormai abbiamo un solo raccolto all’anno”. Con la perdita delle terre ancestrali e dei redditi legati al fiumi e i problemi legati alla gestione dell’acqua è iniziato un esodo rurale di massa. Da quarant’anni i giovani lasciano l’Issan rurale per andare a lavorare nei centri urbani. “I nostri figli sono condannati a vivere a Bangkok. Fino a quando dovremmo soffrire perché chi ha approvato il progetto continui a arricchirsi?”, protesta Apirat Suthawan, capo del villaggio 10. Ubon Yoowah descrive la spirale infernale della corruzione: “Pur di ottenere un posto al governo, i politici, dal ministro dell’Agricoltura ai capi di distretto, investono ingenti somme di denaro. Approvano grossi contratti per la costruzione di strade o dighe in cambio di tangenti versate dalle banche e imprese di costruzioni”. Anni fa, gli abitanti di Pak Mun, alla foce del fiume Mun, hanno occupato per mesi il cantiere di costruzione dell’ultima diga. La protesta si era diffusa nei villaggi lungo il fiume. Ne era nata l’Assemblea dei Poveri, che riuniva tutte le comunità che erano state danneggiate dalla costruzione dalle dighe, da altre operazioni minerarie o espropriazioni fondiarie. Nel 1997, i militanti avevano marciato fino a Bangkok e si erano accampati per 99 giorni davanti al Parlamento per chiedere equo compenso. “Pak Mun è stato un momento importante per far capire ai lavoratori, agli agricoltori e alle minoranze etniche che possono lottare per difendere i loro diritti e contro la politica fondiaria”, afferma Wattana Narkpradit, ex segretario dell’Assemblea dei Poveri. Lo scorso luglio, una rivolta popolare è partita dalle università di Bangkok. I giovani urbani reclamano le dimissioni del governo, la riscrittura della Costituzione, la riforma della monarchia e la ridistribuzione della ricchezza. L’Issan, dove vive un terzo della popolazione della Thailandia, è trascurato dalle autorità centrali, tranne che in periodo elettorale, e riceve meno del 5% del bilancio nazionale. I partiti liberali, sensibili alle problematiche della regione, o sono stati banditi o sono paralizzati da un sistema parlamentare dominato dalla coalizione formata da Prayuth Chan-ocha, capo della giunta militare diventato primo ministro.
“Il governo pensa vvche le popolazioni rurali del nord-est non abbiano gli stessi diritti degli altri e che non meritino di essere sostenute. In questo paese, gli agricoltori, anche se sono i più numerosi, sono in fondo alla gerarchia sociale”, spiega Ubon Yoowah. Dopo anni di rivendicazioni e proteste, il governo ha iniziato a risarcire i titolari di proprietà terriere. Secondo International Rivers, 17 mila famiglie di agricoltori hanno perso la loro terra. Il Dipartimento dell’irrigazione reale (Dir) ha anche accettato di finanziare un programma per trasformare le proprietà terriere delle colline in fattorie agricole integrate con l’aiuto di ingegneri. Il direttore del Dir di Rasi Salai dice di capire l’amarezza degli abitanti: “Stiamo aiutando gli agricoltori a passare a colture diverse dal riso, a più forte valore e più adatte all’ecosistema in evoluzione, e a piantare più alberi. Se tutti seguissero questo modello, non avremmo più problemi. Ma le dighe e le zone di irrigazione sono necessarie – aggiunge –. Ogni zona della regione ha tassi di piovosità diversi e fare affidamento esclusivamente sull’acqua piovana non è sufficiente. Dobbiamo usare le nostre risorse naturali per fornire acqua agli abitanti e tutto ciò che abbiamo è il Mekong”. Più di sessanta milioni di persone nei sei paesi del sud-est asiatico attraversati dal fiume dipendono dalle sue risorse per la loro sopravvivenza quotidiana. Malgrado l’allarme degli ambientalisti sugli effetti devastanti delle dighe sul Mekong e i suoi affluenti, il governo ha annunciato un piano per deviare il corso del fiume verso il fiume Loei nel punto in cui entra in Thailandia. L’acqua verrebbe trasferita ai fiumi Chi e Mun, i cui bacini sarebbero collegati a dei canali verso delle zone più secche.