L’inchiesta

“Se Aspi avesse fatto i lavori il Morandi sarebbe in piedi”

La perizia consegnata ai pm accusa Autostrade

22 Dicembre 2020

La causa scatenante del crollo del Ponte Morandi che ad agosto 2018 ha provocato 43 morti è la “gravissima forma di corrosione” dei cavi che reggevano “la pila numero 9”. “Lo stato di manutenzione e di conservazione della parte del viadotto crollato ha avuto diretta e conclamata influenza sul crollo”. Ma soprattutto: “Non sono stati individuati fattori indipendenti dallo stato di manutenzione e conservazione del ponte che possano avere concorso a determinare il crollo”. Con queste conclusioni, contenute in un rapporto di 467 pagine, i periti del giudice per le indagini preliminari Angela Nutini, mettono definitivamente nero su bianco che la tragedia di Genova dipende soprattutto da chi doveva fare i lavori e non li ha fatti. È una relazione che sostanzialmente conferma su un piano tecnico il quadro probatorio raccolto negli ultimi due anni dalla Guardia di Finanza e dalla Procura di Genova. Si tratta di una perizia durissima per Autostrade per l’Italia, concessionaria a cui era affidata l’opera e a cui spettava la manutenzione.

Non solo. I controlli carenti, l’aver ignorato le indicazioni dello stesso progettista, l’ingegner Riccardo Morandi, e dei consulenti esterni (in particolare le prescrizioni su sistemi di monitoraggio della società Cesi, nel 2016, e del professor Carmelo Gentile nel 2017), hanno avuto secondo i periti un ruolo nel cedimento strutturale. Il progetto di retrofitting (ristrutturazione che non vide mai la luce) presentato al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti nel 2017, si basava infatti su “dati non corretti riguardanti la salute dei trefoli” (i componenti che formano i tiranti d’acciaio).

Più controlli avrebbero con sentito di accorgersi in tempo del male che stava divorando i cavi: “L’esecuzione di indagini finalizzate ad acquisire un quadro conoscitivo più rispondente alla realtà dei fatti avrebbe consentito di evidenziare l’anomalia esistente in sommità della pila 9 – scrivono ancora gli esperti – l’esecuzione dell’intervento, con adeguato anticipo rispetto al momento del crollo, lo avrebbe evitato con elevata probabilità, ciò si evince anche dal fatto che il crollo stesso, per effetto della presenza degli impalcati tampone, non si è propagato agli altri sistemi bilanciati”.

I periti – gli ingegneri Giampaolo Rosati, Massimo Losa, Renzo Valentini e Stefano Tubaro – ripercorrono l’intera vita del Ponte Morandi. Un viadotto fragile, con alcuni difetti progettuali, in parte legati a metodi costruttivi dell’epoca, ma per lo più conosciuti, perché indicati proprio dal progettista in due rapporti già nel 1979 e nel 1981. “Sono state trascurate negli anni le indicazioni dello stesso ingegner Morandi con particolare riferimento al degrado degli acciai” degli stralli (i tiranti diagonali rivestiti in calcestruzzo). A rompersi, secondo la perizia del giudice, è stato proprio uno di essi, individuato con il nome di “reperto 132”.

Ma aldilà del punto di rottura, a spiegare la tragedia secondo gli esperti sono gli anni di incuria e di abbandono: “Le cause profonde dell’evento possono individuarsi in tutte le fasi della vita del ponte, che iniziano con la concezione e la progettazione dell’opera, e terminano con il crollo. Lungo questo periodo temporale, si collocano le cause, relative alle diverse fasi della vita dell’opera, che hanno contribuito al verificarsi del crollo. Esse sono identificabili nei momenti dei controlli e degli interventi manutentivi che, se fossero stati eseguiti correttamente, con elevata probabilità avrebbero impedito il verificarsi dell’evento. La mancanza e/o l’inadeguatezza dei controlli e delle conseguenti azioni correttive costituiscono gli anelli deboli del sistema; se essi, laddove mancanti, fossero stati eseguiti e, laddove eseguiti, lo fossero stati correttamente, avrebbero interrotto la catena causale e l’evento non si sarebbe verificato”.

L’ultimo intervento legato alla manutenzione strutturale del viadotto Polcevera risale agli anni Novanta e fu fatto quando Autostrade era una società pubblica. Gli interventi riguardano solo due pile su tre. Dopo la privatizzazione, e il passaggio al gruppo Atlantia, controllato dalla famiglia Benetton, bisogna arrivare ai tre anni che precedono il crollo per ritrovare un nuovo progetto di intervento. Un “retrofitting” che si incaglia in diverse consulenze, e in un iter ordinario di approvazione ministeriale che doveva partire nel settembre del 2018. Se quel lavoro fosse stato portato a termine, dicono oggi i periti, la struttura sarebbe ancora in piedi.

Ecco perché una parte importante dello studio viene dedicata ai sistemi di monitoraggio “carenti”. Le consulenze firmate da Cesi e Gentile consigliavano vivamente ad Aspi l’installazione di sensori intelligenti. Nessuna di queste indicazioni fu accolta. Anzi, quando Pavimental (controllata di Aspi) tranciò i sensori esistenti, nessuno li sostituì. “Il sistema di monitoraggio era di tipo “statico” – si legge ancora nella relazione – ed era solo formalmente conforme alla normativa vigente e alla migliore pratica. La bassa numerosità dei sensori e l’assenza dell’interpretazione strutturale delle letture, in funzione delle criticità da monitorare, ha reso inefficace e potenzialmente fuorviante il sistema”. Il rapporto dà atto anche di alcuni problemi progettuali, presenti nella struttura. Ma, è il ragionamento di fondo portato avanti nell’indagine, tutto avrebbe potuto essere neutralizzato da controlli e manutenzione.

La consulenza di parte di Autostrade, sottolinea invece l’esistenza di un vizio occulto, oltre al ruolo concorrente che avrebbero avuto la caduta di una bobina da un tir e la giornata di pioggia. I legali rimarcano inoltre come su quella pila, dove sarebbe avvenuta la corrosione, era stata effettuata un’opera di impermeabilizzazione nel 1993.

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