Era esattamente il giorno della Befana quando l’Office of the United States Trade Representative (UsTR), che risponde direttamente alla Casa Bianca, ha depositato un rapporto su un’indagine iniziata a giugno. Il titolo spiega tutto: “Report on Italy’s Digital Services Tax”, cioè Rapporto sulla tassa sui servizi digitali italiana, meglio nota come digital tax o web tax.
Capito il campo da gioco, forse saranno chiari anche i contenuti: a Washington quella tassa, che in Italia dovrebbe dar luogo ai primi adempimenti il 16 febbraio, non piace per niente. Donald Trump la considerava una specie di affronto alle imprese a stelle e strisce e, toni a parte, l’atteggiamento non dovrebbe cambiare granché con Joe Biden. La strada è già fissata proprio dal rapporto UsTR del 6 gennaio: dazi commerciali come ritorsione a una tassa che colpisce soprattutto le grandi imprese americane del web, da Google in giù (peraltro, l’Italia è da poco rientrata tra i Paesi sotto osservazione perché presunti “manipolatori di moneta” secondo gli Usa, speciale classifica guidata da anni da Cina e Germania).
Per capire serve un piccolo riassunto. Di web tax si parla ormai da molti anni. Il motivo è molto semplice. Imprese che hanno ormai bilanci più grandi di quelli di molti Stati (Facebook, Google, Amazon, Apple, etc.) da anni scelgono sostanzialmente su un menu di sconti gentilmente concessi da vari Paesi come e dove pagare le tasse sui servizi che vendono in tutto il mondo: ogni anno enti di ricerca pubblici e istituzioni finanziarie private calcolano poi quante tasse hanno risparmiato le cosiddette OTT, Over The Top. Ne citiamo uno solo: secondo Mediobanca, le 25 imprese più grandi hanno pagato meno tasse sugli utili per 46 miliardi negli ultimi 5 anni. In Italia la situazione al 2019 era: 3,3 miliardi di euro di ricavi, 70 milioni di euro di tasse, il 2,1%.
Riassumendo moltissimo, dopo varie giravolte, Paesi come la Francia e l’Italia hanno deciso di varare leggi che intercettassero un po’ di quel fiume di denaro in uscita dai loro confini. La normativa italiana – che molti giudicano di difficile se non impossibile applicazione – prevede una tassa del 3% su alcuni servizi digitali per aziende che abbiano un fatturato superiore ai 750 milioni di euro nel mondo e con ricavi da servizi digitali realizzati in Italia non inferiori a 5,5 milioni: in sostanza, grandi aziende. Le attese di gettito sono di circa 700 milioni l’anno.
A seguito delle proteste Usa, però, l’Italia si è impegnata a sostituire la sua digital tax con quella in discussione all’Ocse. Problema: è bloccata dai veti degli Usa. Anche l’Unione europea aspetta l’Ocse, ma ha annunciato una proposta comunitaria entro la prima metà di quest’anno (non è la prima volta, però). E qui veniamo al report americano: “Sia le soglie di fatturato della digital tax che la selezione dei servizi coperti discriminano le aziende statunitensi interessate”; “43 aziende o gruppi potrebbero essere colpiti, di questi 27 sono statunitensi (62%), 3 italiani e gli altri 13 provenienti da altri Paesi”. E ancora: “La digital tax italiana prende di mira quei settori in cui le aziende americane sono dominanti, vale a dire l’internet advertising e le interfacce digitali, che comprendono marketplace online e alcuni servizi di sottoscrizione”. Riassumendo, “discrimina le società statunitensi, è in contrasto con i principi fiscali internazionali e ostacola o limita il commercio Usa”.
Indagini simili sono aperte o si sono concluse su Francia, Austria, Spagna, Regno Unito, Turchia e altri. Quando saranno terminate, sempre che la situazione all’Ocse non si sblocchi, Washington prenderà una decisione comune sulla base della “Section 301” del Trade Act del 1974, che riserva agli Usa la possibilità di “contrattaccare” con dazi o altre azioni se ritenga le sue imprese discriminate: l’alimentare, nel caso dell’Italia, è il settore più facilmente attaccabile.