La decisione di Twitter di sospendere l’account di Donald Trump crea un brutto precedente. Insieme a Facebook, la società fondata da Jack Dorsey controlla infatti gran parte della comunicazione, con un’influenza evidente nel dibattito pubblico. La decisione, più che una rigida applicazione di regole interne, appare invece molto politica. Non a caso si accompagna all’annuncio da parte di Google
di bandire la piattaforma Parler, regno della destra alternativa americana, scelta che si appresta a compiere anche Apple.
Le motivazioni “politiche” si possono scorgere nello stesso comunicato della società di San Francisco che ha preso la sua decisione dopo aver ricostruito la sequenza di tweets del presidente statunitense da leggere “nel contesto di eventi più ampi nel paese e nel modo in cui le dichiarazioni del presidente possono essere mobilitate da diversi pubblici, anche per incitare alla violenza, nonché nel contesto del modello di comportamento di questo racconto nelle ultime settimane”.
Twitter fa riferimento al clima che si starebbe creando per l’inaugurazione della presidenza Biden, alla decisione di Trump di non presenziare e a prove di “piani per future proteste armate” già il 17 gennaio. Tutto questo lascia intendere che “la transizione non sarà ordinata” e che dunque la sospensione ha una funzione preventiva. Sulla base di una autonoma valutazione da parte di una società privata, si prende una decisione che pone il social network su un piano più forte dell’autorità politica più forte al mondo, come nemmeno le Nazioni Unite.
Il quotidiano online statunitense Politico.com ha evidenziato ieri sul proprio sito la domanda: “Hey Twitter, sei sicuro di ciò?”. E il suo fondatore, John Harris, autore dell’articolo, ha voluto sottolineare che la decisione “in termini strettamente politici, potrebbe benissimo dare slancio a Trump e ai suoi sostenitori”. D’altro lato, i sostenitori della decisione, citiamo ad esempio la testata Valigia Blu definiscono “incomprensibile il grido di disperazione di chi in queste ore, in seguito a una decisione senza precedenti delle principali piattaforme social, si lamenta perché la stessa regola che si applica a noi comuni mortali è stata finalmente applicata all’uomo più potente sulla faccia della terra”.
A risposta di questa tesi un po’ semplificata si potrebbero richiamare gli scritti di quanti hanno riflettuto sulla funzione di “spazio pubblico” delle piattaforme social, da Joseph Van Dijk a Manuel Castells o Zizi Papacharissi. Le piattaforme hanno già plasmato, occupandola, la sfera pubblica facendone una proprietà diretta.
Cristina Antonucci, sociologa politica e docente di Comunicazione politica alla facoltà di Lettere della Sapienza, ha scritto su Formichenews, rivista molto netta contro le posizioni populiste, che i social network si assumono ora una grande “responsabilità nel decidere chi, dotato di una posizione di potere politico o di un incarico istituzionale, abbia diritto ad avere accesso alle piattaforme”. Le piattaforme si sono finora presentate come supporto tecnico alla discussione e non come editori ma ora “decidono di fare un passo avanti e prendere posizioni politiche nella sfera pubblica”. Per questa ragione “possono e devono rispondere, nell’assumere scelte collettive così politiche, a norme di diritto pubblico, e non solo a policy aziendali”.
Volendo semplificare ancora dovrebbe essere un’autorità pubblica a prendere una decisione così gravida di conseguenze, non certo un consiglio di amministrazione. Bandire una figura politica costituisce un passo molto più impegnativo dell’oscuramento di un tweet o della segnalazione di affermazioni false e fuorvianti: costituisce esattamente una decisione politica. Pensare che possa prenderla un social network e che possa farlo sulla base della libertà d’impresa significa rassegnarsi a essere soggetti allo strapotere delle corporation e alla definitiva privatizzazione della sfera pubblica.