“Prof, ma allora abbiamo sbagliato tutto?”. “Ma di che sta parlando? Non capisco”. “I dati Eurispes sulla criminalità nelle province italiane. Non ha visto?”. No, in effetti non ho visto. Al telefono è Marco, mio laureato comasco. Anni addietro fece la tesi di laurea sulle organizzazioni mafiose a Como. E poi la tesi magistrale sulla criminalità organizzata in Lituania. Se ne occupa ancora professionalmente, e mica poco. Insomma, non è un pivellino.
Così mi arriva l’elenco di tutte le province italiane, classificate cromaticamente in base alla loro permeabilità alle mafie. Presentato da Eurispes insieme alla Direzione nazionale antimafia. Una suddivisione scientifica, sulla base di un indice di permeabilità alla criminalità organizzata (Ipco), costruito mettendo a sintesi “19 indicatori compositi”. Ogni tanto qualcuno ha di queste pensate.
Misurare “scientificamente” la presenza mafiosa usando questi o quegli indicatori oggettivi. In genere è un’ambizione che muove chi ha poca esperienza di studi in argomento. Se no saprebbe, giusto per fare qualche esempio, che l’assenza di omicidi mafiosi può derivare non dall’assenza di mafia ma dalla forza dell’ordine mafioso. Che il numero di beni confiscati può dipendere dall’intensità e dal vigore dell’azione giudiziaria come dall’indolenza (o dalle collusioni, venne dimostrato una volta al nord) degli investigatori. Che il numero dei comuni sciolti per mafia può dipendere dall’azione dei prefetti e dal loro rapporto con la politica locale. Eccetera, eccetera. E che ci sono indicatori dieci volte più significativi di quelli immaginati da chi si mette a confezionare i parametri.
Ad esempio come Università degli Studi di Milano demmo un valore alto alla presenza mafiosa nella provincia di Reggio Emilia prima ancora del processo Aemilia sulla base di due fatti: i candidati sindaci di Reggio partivano incredibilmente per fare campagna elettorale a Cutro (la patria dei Grande Aracri), il che significava andare a chiedere il voto non agli emigrati cutresi ma a chi comandava a Cutro; un documentario realizzato dagli studenti di un liceo di Reggio a Brescello rivelava in modo sconvolgente il rispetto di cui godeva Francesco Grande Aracri sia nella folta colonia dei suoi compaesani sia nelle istituzioni amministrative.
Che cosa c’entrano questi dati qualitativi con i parametri “scientifici”? Nulla, ma avevamo ragione noi. Ebbene, ora risulterebbe che tra le province meno esposte alle mafie ci sarebbero Como e Monza-Brianza. Che scoppiano di mafia, come ripetono i magistrati della Dda di Milano, i carabinieri, la Dia, la commissione regionale antimafia, la stampa lombarda e – se posso – i risultati delle nostre stesse ricerche. In queste province “meno permeabili” di tutte abbiamo autentici record di presenze mafiose: rispettivamente 8 “locali” di ’ndrangheta a Como e 6 a Monza. E in quest’ultimo caso due comuni storici come Desio e Seregno che sono stati costretti ad auto-sciogliersi per evitare di essere sciolti per mafia dal prefetto.
Non solo. Il processo contro la ’ndrangheta di Cantù ha chiesto misure straordinarie di protezione dopo la prima udienza, perché parenti e fan degli imputati stavano inscenando in aula una sommossa trumpiana con insulti e minacce contro il pubblico ministero Sara Ombra.
Ma di che parliamo? Vien da dire. Con quale livello di conoscenza scientifica combattiamo la mafia? Perché, mentre si fa sintesi di 19 parametri, qualcuno non si affatica a leggere gli atti ufficiali, giusto per capire se non si stia prendendo un granchio colossale? È vero che anni fa un istituto di ricerca dimostrò, sempre scientificamente, che la Lombardia era, per presenza di ’ndrangheta, la nona regione d’Italia e non la seconda. Ma pensavamo fosse finita lì.
“Prof, abbiamo sbagliato tutto?”. Forse su altro. Su questo no. Andiamo avanti, Marco.