All’inizio ogni nuovo anno, come se il cambio di numero fosse un tangibile spartiacque dello status quo, si fanno buoni propositi di tutti i generi, si esprimono desideri e speranze, in una sorta di convinzione che possano realizzarsi come per incanto. Ma non è così, del 2021, sappiamo che lo scoppio, il diffondersi e il protrarsi della pandemia, inclusa la variante inglese, da coronavirus segnalano la profonda necessità di agire con concretezza individuale, senza delegare a magiche speranze la responsabilità di assicurare un futuro più sano, sostenibile ed equo a tutti, ambiente e animali inclusi.
La domanda globale di cibi di origine animale, che vedrà nel 2050 un aumento del 70% del consumo di carne e latticini rispetto al 2010, è in grado di creare dal punto di vista sanitario situazioni esplosive. (Fonte: World Resource Institute).
I numeri parlano. Un solo esempio: i maiali sono passati da una popolazione globale di 406.18 milioni nel 1961 ai 978.33 milioni del 2018. In Cina, nello stesso arco di tempo, da 85.62 milioni sono diventati 447.18 milioni, con un incremento di 361.56 milioni di individui. (FAO 2020).
La gigantesca nazione suina deve essere nutrita, deve ingrassare rapidamente per essere venduta con vantaggio, ecco un dato: il 73% della soia esportata dal Brasile da febbraio 2020 a oggi è andata nella grande nazione del sud est asiatico (Agricensus). Soia, come sappiamo, significa spesso deforestazione e nelle zone disboscate, per fare spazio a pascoli o monocolture, gli animali selvatici sono in grado di svolgere il ruolo di serbatoi di virus: trovandosi vicini alle persone diventano, loro malgrado, punti “di accesso” per nuovi elementi virali. Controllare la deforestazione, che quest’anno ha raggiunto in Amazzonia il suo punto massimo dal 2008, significa anche preservare la biodiversità e la preziosa funzione degli alberi nel mantenimento di una temperatura globale adeguata alla vita sulla Terra.
Circa il 71% della foresta sudamericana convertita “ad altro uso” è destinato al pascolo degli animali, il 14% viene utilizzato per la coltivazione di legumi e cereali per la produzione di mangimi per gli animali negli allevamenti. (fonte: ScienceMag). Ma non si tratta solo di deforestazione, la produzione di alimenti di origine animale ha un costo elevatissimo in emissioni di gas serra, che si sommano ai gas naturalmente presenti nell’atmosfera e causano il riscaldamento globale. Se alle emissioni in aria si aggiungono i fattori inquinanti di acqua e suolo e l’estremo utilizzo di risorse idriche e di suolo, riusciamo a comprendere come nei 50 anni tra il 1960 e il 2011, la produzione zootecnica sia stata responsabile del 65% del cambiamento degli ecosistemi globali. (Fonte: Mottet, A., 2017).
Il report sui legami fra degrado della natura e rischi crescenti di pandemia diffuso recentemente dall’Ipbes (Intergovernmental Platform On Biodiversity and Ecosystem Services), redatto da 22 esperti a livello internazionale è una sirena d’allarme autorevole quanto spaventosa. Si stima, dichiarano gli scienziati, che ci siano altri 1,7 milioni di virus ancora “non scoperti” in mammiferi e uccelli e che fino a 850.000 di loro siano in grado di infettare le persone.
Al temine di questo elenco di danni e rischi, infine, va ricordata la sofferenza degli animali negli allevamenti intensivi: sono infiniti e vulnerabili cloni uno dell’altro, trasformati – in virtù di sempre più precise selezioni genetiche mirate alla massima resa col minimo sforzo, accompagnate da continui ingravidamenti meccanici, usure rapide e rottamazioni incessanti– in articoli di consumo, prodotti a ritmi incessanti e spezzettati per la vendita. Il loro benessere, di cui si parla tanto, è anch’esso – nei criteri minimi che lo governano – assoggettato in primis alla qualità del prodotto, carne, latte o uova.
Gli impatti del ciclo di ‘produzione’ dei cibi di origine animale pesano sul Pianeta, sugli animali e sulla salute collettiva. Dagli incendi incontrollabili al rischio di contrarre virus zoonotici, non si tratta più di fantomatiche minacce per un lontano futuro, ma di una crisi chiara e attuale. Anzi di un mix di crisi – sanitaria, ambientale, economica e sociale – che ci presenta l’opportunità di effettuare un vigoroso cambiamento nei consumi, ridisegnandoli, per creare un sistema alimentare sostenibile che tuteli, invece di danneggiare, il Pianeta e i suoi abitanti, anche i più vulnerabili, gli animali
Gli esperti Ipbes stimano i costi di prevenzione delle pandemie come 100 volte inferiori al costo di risposta alle pandemie. La prima prevenzione è il cambiamento profondo del sistema alimentare, che deve orientarsi sempre più decisamente verso l’utilizzo di proteine 100% vegetali, assai meno impattanti per l’ambiente, migliori per la salute e ‘salvatrici’ di tanti animali. Nel 2021, che vede a settembre l’importantissimo Food Systems Summit delle Nazioni Unite, il cibo sarà al centro delle agende internazionali: agire in modo corretto e tempestivo è fondamentale, per non perpetrare gli errori devastanti di ‘prima’.
Siamo convinti che prevenire sia meglio che curare: in gioco c’è il futuro e possiamo preservarlo solo sviluppando la nostra capacità reattiva, passando dalle parole ai fatti, rivedendo, subito, scelte di consumo insostenibili. Approfondimenti e consigli pratici non mancano su www.cambiamenu.it e su https://www.lav.it/aree-di-intervento/allevamenti-e-alimentazione.
*Lav