Questa mattina, alle otto, ho salutato mio figlio sulla porta di casa mentre andavo a lavorare e gli ho augurato “Buona scuola!”. Poi l’ho guardato meglio, e mi sono resa conto che stavo augurando buona scuola a un quindicenne con lo stesso pigiama da tre giorni, un paio di cuffie infilate storte e le ciabatte di Rick&Morty. Certo, per un attimo l’abbrutimento della dad mi è parso chiaro e inequivocabile, ma poi sono tornata a coltivare il mio pensiero ricorrente, in questi giorni, e cioè che vivere l’adolescenza durante la pandemia non è solo il disastro irreversibile che tutti stanno cercando di farci credere. Certo, i ragazzi non vanno a scuola, non escono divisi in gruppetti durante la ricreazione, non fumano le svapo di nascosto in gita e non si baciano alle feste.
Qualcuno ha dovuto rinunciare ai tornei di basket, alle scuole di danza o al corso di chitarra, ma la verità è che questi ragazzi hanno una rosa di possibilità per galleggiare nella socialità che era inimmaginabile anche solo 15 anni fa. Questa è la prima pandemia nata nell’era digitale. Fosse arrivata negli anni 80, per dire, sarebbe servita l’autocertificazione per andare a telefonare a un amico o a un fidanzato nella cabina a gettoni. Cabina a gettoni che forse avremmo trovato sigillata, visto che sarebbe stata il luogo infetto per eccellenza (le cornette dei telefoni pubblici sarebbero state fatte brillare dagli artificieri). Il livello di istruzione negli adulti, qualche decennio fa, era decisamente più basso, molti di noi si sarebbero ritrovati in casa con genitori analfabeti o semi-analfabeti, senza poter andare a scuola. E non è che avremmo avuto la dad. Forse la dad si sarebbe potuta fare tramite la tv e considerato che negli anni 80 in tv l’unico che aveva disposizione un canale quasi 24 ore su 24 era Red Ronnie, saremmo venuti su con Red Ronnie come docente. Immaginate il disastro. Oggi gli adolescenti, in un mondo costretto all’immobilità, possono conoscersi, connettersi, innaffiare amori e amicizie, perfino corteggiarsi. Certo, toccandosi e annusandosi poco, ma questo era un problema che ci ponevamo già prima, se non ricordo male. E in fondo, quello che prima era il problema (stanno sempre sui social anziché vedersi), oggi è la soluzione (per fortuna ci sono i social, visto che non possono vedersi). Nella stessa situazione, 20 anni fa, avremmo vissuto in una bolla di solitudine.
E poi c’è, in questa dimensione sospesa, anche la grande opportunità per gli adolescenti di imparare cose che avrebbero imparato, forse, più in là. Sono investiti di responsabilità in un’età in cui tendono a essere sfuggenti e inaffidabili. Devono mettere la mascherina, devono organizzarsi lo studio con maggiore autonomia, devono rimanere spesso a casa da soli, devono dare tutti i giorni il loro contributo a una società in affanno.
Incredibilmente, stanno imparando il senso della comunità e del bene comune vivendo nell’isolamento, o comunque, con una socialità limitata. Il che è un paradosso, ma anche una grande opportunità. Imparano a fare la propria parte e il senso di quel “si fa quel che si può” pronunciato in JoJo Rabbit dalla mamma del piccolo JoJo, che combatte il nazismo con i suoi pochi mezzi.
Soprattutto, fanno i conti con un tema che la Generazione Zeta conosce poco: quello delle conseguenze. Abituati dalla tecnologia a mettere un filtro tra loro e il mondo, gli adolescenti sono spesso digiuni del concetto di empatia. Si immedesimano poco negli altri, hanno la possibilità di fare del male senza guardare negli occhi dell’altro gli effetti della loro frequente anaffettività. La pandemia ha insegnato a loro, a tutti, quanto il gesto di uno di noi possa cambiare le sorti di un’intera comunità, quanto possa fare la differenza, nel bene e nel male. Ed è un insegnamento che arriva nell’età dell’egoismo per eccellenza, dell’affermazione di sè, dell’autodeterminazione, il che rende questo momento, per gli adolescenti, qualcosa di potente e irripetibile. Infine, abbiamo dei ragazzi che stanno vivendo immersi nella storia, in quello che accade. Hanno – mai come oggi – l’opportunità di comprendere l’importanza della scienza, il peso della politica, i problemi pregressi della scuola, l’importanza imprescindibile della salute e di uno stato che sappia curare. Molti di loro, forse, rimarranno impermeabili a tutto. Altri coglieranno l’opportunità che l’epidemia gli sta dando. Certo, mi dispiace che si stiano perdendo qualcosa, ma il tempo della leggerezza tornerà. E non vedo l’ora di vederli di nuovo in classe o al bar ad abbracciarsi, gli adolescenti, ma non mi dispiace l’idea che torneranno a farlo avendo imparato qualcosa in più di come si sta al mondo.