Il migrante quando sceglie la rotta balcanica sa che non è via la più costosa, né la più pericolosa. Per percorrerla però ci vuole molta resistenza. Il viaggio dura in media un anno e un inverno al gelo è obbligatorio. “Vogliamo solo non morire di freddo, poi ce ne andremo”. Nurul Arman, 23 anni, è accovacciato davanti a un cerchione d’auto usato come braciere. Vive in una capanna, ce sono una dozzina su un terreno scosceso in mezzo al bosco.
Gli abitanti sono tutti bengalesi, una cinquantina. “Non avevo mai visto la neve. In Bangladesh piove, ma questa è pioggia fredda”. Masud Sazzad viene da Cox Bazar, l’estremo sud del Paese, al confine con il Myanmar. “Lì abbiamo tanti rifugiati rohingya, ma vivono in campi migliori di questo”. Il peso della neve preme sui pezzi di legno e i teli di plastica che questi uomini chiamano casa. “Ho tentato di attraversare il confine sei volte. Mi hanno sempre preso. La polizia croata mi ha picchiato e rubato tutto”. Shahin Issk parla nascosto sotto un’impermeabile di plastica gialla. È quasi irriconoscibile dalla sua foto profilo su Facebook: giacca e camicia bianca, seduto dietro a una scrivania. “Sono un ingegnere meccanico, ma non sono scappato per quello. Ero parte del sindacato e del partito d’opposizione. Mi hanno tolto il lavoro, minacciato. Sono dovuto andare via”. Lo scorso fine settimana ha nevicato abbondantemente, sono stati i momenti più caldi. Il termometro è bloccato sotto lo zero. Il confine tra Bosnia e Croazia è una grande foresta montana. Nascosti tra pini e neve vivono quasi mille uomini in attesa che passi l’inverno. Sono divisi in tanti piccoli accampamenti invisibili, come quello dei bengalesi. Si sono sistemati un po’ meglio centinaia di ragazzi che hanno occupato edifici abbandonati ai limiti delle urbanizzazioni. Hanno un tetto, ma nessun servizio. Per scaldarsi e cucinare accendono fuochi di legno e plastica. Il fumo nero riempie gli stanzoni senza finestre. Murat ha 17 anni e questo è il suo terzo inverno in viaggio. Oggi dorme sul pavimento di un cantiere abbandonato a Bihac: “La polizia mi ha fermato dieci giorni fa. Mi hanno fatto immergere nell’acqua gelida. Sono stato malato per giorni”. Tra loro non ci sono donne e bambini, le condizioni sono estreme. Le famiglie bloccate in Bosnia sono poche unità e vivono in due campi gestiti dall’Oim (Organizzazione Internazionale delle Migrazioni) in città.
A 30 chilometri di curve, sul costone innevato di una montagna, c’è il campo di Lipa. Sono oltre mille, uomini soli, principalmente afghani e pachistani. Nel dicembre del 2019 venne sgomberato il campo di Vucjak. L’Unione europea fece un grosso assegno al governo bosniaco, sempre con la mediazione dell’Oim, perché l’Europa non ha diritto di intervenire in un Paese non membro. Venne allestito il campo di Lipa. Come per Vucjak, si scelse una radura nei boschi. Ma nei milioni di euro stanziati da Bruxelles non c’erano fondi per acqua corrente, fogne ed elettricità. La legna per scaldarsi non si raccoglieva più nella foresta, la fornivano le autorità. La notte della vigilia di Natale il campo ha preso fuoco. Altri fondi Ue all’Oim e da sabato c’è un nuovo campo accanto ai resti di quello bruciato. Come da prassi, acqua, fogne ed elettricità non sono state ritenute necessarie. “Per andare in città dobbiamo fare quattro ore a piedi e qui non distribuiscono pasti caldi. Solo pane con una scatoletta di tonno e uno yogurt”. Coperta sulle spalle e pantofole in plastica, Averjan è in coda sotto la neve per ricevere del cibo. Non ce ne sarà per tutti. Viene dal Pakistan, dove ha lasciato tre figli, e ha già tentato di attraversare il confine oltre dieci volte. “Mi hanno picchiato e rubato tutto. Sono arrivato fino a Trieste, ma mi hanno riportato qui”. Non è arrabbiato né agitato mentre ne parla. “Prima era più semplice, più veloce. Taxi e bus non ci fanno più salire. Dobbiamo fare tutto a piedi. Abbiamo solo il Gps”. La migrazione attraverso i Balcani è diventata una lunga marcia tra i boschi, sempre cercando di nascondersi dalla polizia. Con la neve e il fango che diventa ghiaccio, muoversi sembra persino più pericoloso che restare immobili. Averjan pensa solo a ripartire: “Dobbiamo andare via, però non possiamo farlo con questo tempo. Non abbiamo soldi e non sappiamo a chi chiedere aiuto”. Resterà così, cercando di dormire tutto l’inverno.