“Siamo seri: chi ha perso le elezioni non può andare al governo. Non può passare il messaggio che il 4 marzo è stato uno scherzo. Sette italiani su dieci hanno votato per Salvini e Di Maio, lo facciano loro il governo se ne sono capaci”. Con queste parole, la sera di domenica 29 aprile 2018, Matteo Renzi andò in tv da Fabio Fazio e pose il veto alle trattative in corso fra il M5S e il Pd per formare una maggioranza tra quelli che erano pur sempre i due partiti più votati dagli elettori. Ricordiamocelo: nel 2018 la Lega, pur crescendo impetuosamente, arrivò solo terza col 17,4%. Fu quel veto renziano a spalancarle l’accesso al governo, inaugurando la nefasta stagione della destra che l’avrebbe portata a raddoppiare i voti e a diventare partito di maggioranza relativa.
Ancora ieri, con la consueta disinvoltura, Renzi ha scritto nella sua enews: “Italia Viva è nata per togliere i pieni poteri a Salvini”. Falso anche questo. La scissione del Pd fu programmata freddamente dopo la nascita del governo Conte bis, nel settembre 2019. E l’attuale alleanza fra M5S, Pd e LeU venne proposta da varie personalità fra cui Prodi, Landini, Franceschini, Bersani, Bettini; non certo dal solo Renzi. Non sono dati di fatto marginali quelli sopra elencati. Spiegano l’esasperazione, ma anche un certo moto di sollievo, provati di fronte all’ennesimo voltafaccia con cui Renzi ha cercato di porre fine alla coalizione giallorossa. Tirato per i capelli, il gruppo dirigente del Pd ha perso la pazienza, emettendo un giudizio che si spera definitivo sul suo ex segretario: inaffidabilità grave, tale da arrecare danno al Paese. Vedremo fino a che punto saprà trarne le conseguenze.
Sì, perché è come se questo partito dalla natura composita, evanescente nel suo radicamento sociale, ma sempre bene inserito nelle istituzioni, nelle amministrazioni locali e nell’establishment, posto di fronte a questa provocazione sia stato costretto finalmente a definire il suo profilo strategico. Ciò che vale, è ovvio, anche per il M5S, sollecitato da Beppe Grillo a proseguire nella sua trasformazione in forza progressista ed europeista.
Una felice sintonia sembra caratterizzare le prime reazioni dei maggiori esponenti Pd, dal segretario Zingaretti al capodelegazione Franceschini: no a qualsiasi ipotesi di unità nazionale comprendente i partiti della destra sovranista; riconfermata la fiducia a Conte che si è comportato bene alla guida del governo, dissipando i sospetti originati dal suo disinvolto cambio di casacca; e in definitiva rilanciare un’alleanza di centrosinistra plurale col M5S, senza la quale non sarebbe pensabile competere con la destra. Fin qui tutto bene. Purché l’affannoso (e, riconosciamolo, imbarazzante) reclutamento di parlamentari disposti a garantire una solida maggioranza al governo Conte, non fornisca il pretesto per rinviare le necessarie scelte strategiche.
Dice Zingaretti: “Dobbiamo evitare le elezioni e proteggere la legislatura”. La situazione in cui versa il Paese è tale che non possiamo dargli torto. Ma la paura della destra e dei danni che un suo governo provocherebbe non deve impedire che si faccia un passo in più. Delineare con chiarezza – quale che sia la legge elettorale con cui prima o poi si voterà – se la coalizione giallorossa sarà alla base dell’offerta programmatica con cui il Pd affronterà il giudizio dei cittadini. Sia nelle elezioni politiche, sia nelle grandi città. Personalmente sono convinto che già oggi, soprattutto dopo gli esiti della Brexit e dopo la sconfitta di Trump, una coalizione europeista guidata da Conte sarebbe in grado di competere ad armi pari con la destra sovranista guidata da Salvini. Può darsi che mi sbagli, ma resta il fatto che, senza fare subito chiarezza in merito, non si va da nessuna parte.
Sciogliere questo nodo aiuterebbe il Pd ad affrontare nel contempo il suo cruciale dilemma esistenziale: vuole, può essere qualcosa d’altro che non solo un partito di sistema? La vocazione governativa del Pd che già lo ha portato a recidere i legami con la base sociale delle origini, le classi subalterne, lo destina inevitabilmente a configurarsi espressione organica dell’establishment?
Cito a casaccio episodi simbolici, ma significativi: il passaggio diretto dell’ex ministro Padoan da deputato a presidente dell’Unicredit; l’eccesso di zelo con cui la ministra De Micheli si è premurata di sollecitare ai vertici del Viminale l’accelerazione delle pratiche di cittadinanza per un calciatore della Juventus. Nessun moralismo, ma si tratta di segnali che l’opinione pubblica percepisce come naturale consuetudine, internità all’humus dei poteri forti. Il Pd necessiterebbe di riallacciare ben altri legami dalla parte degli sfruttati e dei soggetti più fragili. Indicare con chiarezza la prospettiva e la fisionomia di un nuovo centrosinistra è la premessa ineludibile per lasciarsi alle spalle la stagione del renzismo.