L’avvocato soffre fino a tarda sera, ma è salvo. Esce incolume dall’ordalia del Senato, Giuseppe Conte, con 156 sì, di cui due recuperati all’ultimo secondo, e 140 no alla fiducia. Il premier resta lontano dalla vetta dei 161 voti, la maggioranza assoluta. Ed è stata comunque decisiva l’astensione dei 16 eletti di Italia Viva, la creatura di Matteo Renzi. Ma non gli è andata male, anche grazie ai due inaspettati sì dei forzisti, Mariarosaria Rossi e Marco Causin, cacciati in diretta da FI.
Così Conte può respirare, “anche perché mancava un 5Stelle con il Covid e voti come quelli della Binetti (Udc) si possono recuperare” ricordano. Ma da oggi dovrà correre, cioè darsi da fare perché nascano prima possibile due gruppi centristi nelle due Camere, di cui uno, vitale, proprio a palazzo Madama. “Fatti quelli, si potrà arrivare al rimpasto” dice un dem ben addentrato. Ossia a “quel rafforzamento della squadra di governo” che ieri il premier è tornato a promettere, per attirare Responsabili ma anche per tranquillizzare il il Pd e il M5S. Ieri in ambienti di governo girava già una sorta di nuova lista, con il ministero dei Trasporti e Infrastrutture scorporato in due dicasteri, e la resurrezione del ministero delle Pari opportunità. In pratica, modi per allargare la squadra con nuovi posti, senza sconvolgere l’assetto, quindi senza le dimissioni del premier. Però un Conte ter, formale o solo di fatto, pare inevitabile. Ma con che tempi? “Potrebbero servire settimane” dicono da ambienti di Palazzo Chigi. Ma tutto questo tempo a occhio Conte non lo ha.
Lo sa bene il premier, che ieri mattina in Senato ammette subito: “I numeri sono importanti e oggi ancora di più, questo è un passaggio fondamentale”. Al punto che il premier evoca la “rabbia” che cova lì fuori, così da teorizzare: “Solo la politica può evitare che il malessere diventi contrapposizione”. Tradotto, se questo governo non regge si potrebbe rischiare. D’altronde per tutto il giorno dal governo fanno filtrare preoccupazione, per smuovere indecisi e spingerli a votare per la maggioranza. “Drammatizzare, evocando il rischio del voto” è la linea, predicadagli sherpa che fino all’ultimo momento in Senato avvicinano gli eletti. “Il presidente è sempre al telefono” sussurrano, per lo meno nelle pause per la sanificazione dopo il suo intervento in mattinata. Conte chiama e manda messaggi chiedendo di continuo lo stato dei numeri al ministro per i Rapporti con il Parlamento, il grillino Federico D’Incà, che tiene il filo delle trattative. Nel tardo pomeriggio ascolta i 20 minuti di critiche e frecciate di Matteo Renzi, sfogliando carte. Poco dopo tocca ancora al premier per le repliche, e cita subito “il preoccupante calo demografico”, per rincorrere il voto dell’ex 5Stelle Tiziana Drago (inutilmente). Soprattutto, risponde a Renzi sul primato di morti per l’Italia: “Siamo stati i primi colpiti dalla crisi e non avevamo il manuale. E da noi non si invecchia bene”. Poi si rivolge direttamente al fu rottamatore: “Avete bloccato per 40 giorni il Recovery Plan, ma quando mai non si è potuto discutere? Nessuno vi ha mai chiuso le porte”. E glielo rinfaccia: “Avete scelto la strada dell’aggressione”. Precisa ma non picchia, il premier. L’astensione di Iv serve. E alla fine riconosce: “Se non ci sono i numeri questa maggioranza va a casa”. E infatti rimette sul tavolo “il rafforzamento della squadra di governo”. È disposto a concedere, tanto: “Quando parlavo di squadra migliore del mondo usavo un’iperbole”.
In serata, il voto e il giallo finale del sì dell’ex 5Stelle Ciampolillo. I ministri vanno tutti dalla presidente Casellati, per far ammettere il suo voto. E Ciampolillo e il socialista Nencini sono ammessi come sì. Patemi, da crisi.