Il giuramento di Joe Biden sarà ricordato più per le parole conclusive, in spagnolo, di Jennifer Lopez – “Justicia para todos” – o per Lady Gaga, che per il messaggio del neo presidente. Il cui registro è stato chiaro: riunire l’America, essere per davvero Stati “uniti”, obiettivo a cui, citando Lincoln, ha detto di voler “consegnare” tutta la sua anima. Scelta voluta per incunearsi nel mondo repubblicano e dividerlo dall’estremismo e dalle “fakes” di Trump. Eppure un po’ troppo retorico e astratto, poco attento alla vita quotidiana.
La giornata di ieri ha certamente dimostrato che Trump non è riuscito a destrutturare la democrazia Usa che, con il suo sistema di checks and balances, le sue Corti federali, il suo elettorato in grado di sfidare un sistema anti-democratico, si conferma ancora funzionante.
Trump ha sfregiato quelli che Tocqueville definiva i “costumi e gli usi” della democrazia americana, le sue consuetudini, ma non ne ha minato la sostanza. L’assalto a Capitol Hill e la minaccia di fondare un partito estremista e nazionalista, però, potrebbe segnare in profondità i prossimi quattro anni. Proprio per questo l’unità bideniana rischia di essere astrattamente istituzionale e scivolare quindi sopra la rabbia di quel mondo in ebollizione – non certamente il suprematismo bianco o le frange più estreme – che si riconosce nel messaggio identitario di Trump.
La firma dei decreti per abolire le norme anti-immigrazione o il rientro nell’Accordo di Parigi sono segnali importanti, soprattutto culturali e internazionali. Ma la ricostruzione interna passerà dai temi sociali, ieri messi da parte. Dimenticare Trump non sarà facile, ma se per farlo i Dem punteranno al “come eravamo”, Donald tornerà a essere un incubo.