Comunque vada a finire, è utile farsi una idea precisa del senso della crisi aperta da Renzi. Crisi tutt’altro che incomprensibile, per nulla personale, ma genuinamente politica. Si spiega benissimo l’accanimento di Renzi su Conte, il quale, piaccia o non piaccia, è il perno oggi della maggioranza di governo e domani dell’alleanza strategica tra centrosinistra e M5S. Rinunciando alla quale non c’è partita. Potremmo riposare e consegnarci allegramente alla destra nostrana.
Riavvolgiamo il nastro. Con lucido cinismo, nelle scorse settimane, Matteo Renzi ha fatto affidamento su due circostanze:
a) la scommessa che l’opzione delle elezioni non fosse praticabile, per ragioni nobili e meno nobili (senso di responsabilità o istinto di sopravvivenza dei parlamentari);
b) la convinzione, ahimè fondata, di potere fare breccia nelle file del Pd e soprattutto dei suoi gruppi parlamentari.
Memore di averli selezionati nominalmente lui a suo tempo e facendo in particolare affidamento sui vertici dei gruppi parlamentari Pd un tempo a lui fedelissimi. Ne abbiamo avuto puntuale conferma in queste ore. Manifestamente l’obiettivo di Renzi, fallita la sua Italia Viva, è quello di fare saltare l’asse Pd-M5S e dividere e umiliare il suo ex partito.
Tardivamente, Nicola Zingaretti e i suoi collaboratori lo hanno compreso. Le cose potevano andare diversamente se ieri e l’altro ieri il vertice Pd si fosse regolato diversamente. Ieri, intendo nelle settimane più recenti, quando il Pd ha dato mezza sponda alle strumentali azioni corsare di Renzi, agitando solo per finta la minaccia delle elezioni (la sola capace di produrre un ravvedimento dei transfughi di Italia Viva). L’altro ieri, quando Zingaretti assunse la guida del Pd sull’onda di una generica domanda di avvicendamento dopo la disfatta elettorale del partito, senza però l’elaborazione della discontinuità dalla stagione renziana, attraverso qualcosa tipo un congresso. Discontinuità di linea e di gruppo dirigente.
Se il vertice del Pd dovesse avallare una soluzione che archiviasse Conte e nella quale ancora fossero determinanti i voti di Italia Viva con il suo potere di ricatto – senza cioè certificare il suo ridimensionamento e pretendere pubblica ammenda – alcune cose risulterebbero chiare: si trasmetterebbe l’idea che è stato tutto uno scherzo, che le parole dei politici valgono zero; si metterebbe a verbale che è Renzi a dettare la linea al suo ex partito; Zingaretti sarebbe delegittimato; il Pd ne uscirebbe privo della visione strategica sulla quale sembrava avesse scommesso per competere con le destre; si regredirebbe rispetto all’incipiente sano bipolarismo (con uno schieramento progressista che torna in partita); si dischiuderebbe invece lo spazio per operazioni neocentriste dal sapore trasformistico. Senza peraltro risolvere il problema contingente, perché Renzi, seguendo il suo spartito e incoraggiato dagli altrui cedimenti, riprenderebbe puntualmente il suo quotidiano ostruzionismo.
In breve, dentro questa distretta si celebra quel congresso che Zingaretti non ha fatto a tempo debito. Avendo come competitor congressuale (esterno ma effettivo) ancora Renzi.