Se un libro è sempre prezioso, un libro in cui si racconta in prima persona cosa fu davvero la Shoah è prezioso due volte. Perché, per una maledizione della storia, gli ebrei sopravvissuti al genocidio nazista sono costretti al ruolo di unici testimoni di quell’orrore assoluto. Tutti gli altri che avrebbero potuto a loro volta raccontarlo hanno sempre taciuto o negato, fino alla morte. Eppure parliamo della più ciclopica operazione di rastrellamento, deportazione e sterminio della storia. La Endlösung, la Soluzione Finale della questione giudaica, fu messa in atto in tutta l’Europa occupata da centinaia di migliaia di uomini delle forze hitleriane, con la complicità di milioni di cittadini di quei Paesi, complici della svastica tedesca. Ma le poche ammissioni sono arrivate solo nelle aule di tribunale, quasi sempre allo scopo di circoscrivere le proprie responsabilità. Dopo i conti sommari fatti dai vincitori sui vinti col falò giudiziario del processo di Norimberga, fu quindici anni dopo un altro storico processo, quello israeliano a Adolf Eichmann, a mostrare al mondo quella che proprio in quell’occasione Hannah Arendt definì la banalità del Male, e cioè la pianificazione ragionieristica dello sterminio di sei milioni di persone che in comune avevano solo la fede religiosa, l’appartenenza a un popolo, pur bollata come “razza ebraica”. Da allora, giusto sessant’anni fa, nascondere o mettere in secondo piano l’Olocausto non fu più possibile. Eppure il compito di raccontarlo fu di lì in poi affidato a una sola minoritaria categoria, i deportati superstiti: come se in quei terrificanti anni della Seconda guerra mondiale si fosse consumato unicamente il conflitto tra un popolo alieno, i nazisti, e un altro popolo, quello ebraico, e a essere estinti fossero stati gli sterminatori. Anche per questo il dovere di continuare a testimoniare l’orrore di Auschwitz rischia di schiacciare gli ormai pochi sopravvissuti a una nuova coercizione, di raccontare sempre la stessa vicenda, davanti a spettatori ormai lontani da quel momento storico, a rischio perfino di essere ascoltati con scetticismo, perché appunto “parte” di quella persecuzione. È come se toccasse a loro di dover documentare quel che accadde, in una diabolica inversione dell’onere della prova. Conoscete del resto documenti scritti o visivi di militari o dirigenti nazisti che descrivano e raccontino quella macchina pianificata di sterminio? Oppure, quel che è peggio per noi, conoscete registrazioni o deposizioni di anche uno solo dei funzionari italiani che si prestarono ad aiutare i nazisti nell’opera di individuazione, rastrellamento, internamento e deportazione degli ebrei del nostro Paese? E lo stesso per i francesi, gli olandesi, i belgi, gli ungheresi, i polacchi e tutti gli altri popoli d’Europa. Nessun nazista, nessun collaborazionista, nessuno degli zelanti cittadini che si misero a disposizione degli eserciti di occupazione, nessuno dei “volonterosi carnefici di Hitler”, nessun delatore pentito. L’omertà post-bellica di un continente che si voleva lasciare subito l’orrore alle spalle, ridando dignità anche alle nazioni sconfitte, ha lasciato soli gli ebrei scampati dai campi di sterminio nel compito storico di tramandare ciò che fu. E questo solo dopo molto tempo, perché la stessa Italia stanca di guerra lasciò sugli scaffali delle librerie praticamente tutte le copie di Se questo è un uomo di Primo Levi, pubblicato due anni dopo la liberazione di Auschwitz da una piccola casa editrice, perché le più grandi e impegnate l’avevano rifiutato. Le ferite erano ancora aperte, e troppe coscienze erano ancora sporche. Perché negli anni dell’occupazione gli ufficiali nazisti erano potuti andare a colpo sicuro: elenchi, residenze, beni e ruoli degli ebrei italiani erano inventariati da molti anni, “grazie” alle infami leggi razziali. Quelle leggi, certo, erano state volute da Mussolini e scritte dai gerarchi del regime fascista, e ignominiosamente controfirmate dal re, ma furono messe in atto con zelo da tutte le amministrazioni centrali e periferiche del Paese, a cominciare da quelle scolastiche, infami più di tutti, per cacciare i minori da ogni istituto.
Come state per leggere, Sami Modiano seppe di essere stato espulso dal suo maestro, nella scuola italiana dell’isola di Rodi: lui, alunno di otto anni, non capì perché succedeva, e fu il padre a doverglielo spiegare.
“Quel giorno ho perso la mia innocenza. Quella mattina mi ero svegliato come un bambino. La notte mi addormentai come un ebreo”. Sami è coetaneo di un’altra bambina ebrea, come lui già orfana di madre e attaccatissima anche per questo al padre, che nella lontana Milano stava vivendo la stessa progressiva tragedia. Liliana Segre si separerà dal padre nel luogo dell’orrore assoluto, la rampa di Auschwitz, per sempre. Per Sami invece il legame col padre e la sorella si spezzerà più avanti nell’inferno dello stesso campo di sterminio. Accosto le loro esperienze anche per affrontare il tema più duro. Possiamo leggere, e ancora ascoltare dalla loro voce, il racconto di Modiano come quello di Segre perché riuscirono a sopravvivere alla macchina organizzata di morte del Terzo Reich. I bambini di allora sono oggi novantenni. Forse anche la loro stessa missione di testimonianza, iniziata per tutti e due solo con la maturità, quando anche il nostro Paese ha cominciato davvero a voler sapere, ha contribuito a corazzarli contro l’incedere dell’età più anziana. Ma non ci saranno per sempre. Per questo il loro racconto dovrà varcare i decenni col supporto indispensabile della parola scritta. Furono perseguitati con le loro famiglie perché appartenevano a quello che in omaggio alla sua storia plurimillenaria fissata dalla Torah è sempre stato chiamato il Popolo del Libro. E, da quando sarà in poi, saranno solo libri come questo a portare avanti la testimonianza di quell’orrore, perché altri occhi di bambino possano leggere, perché nuove coscienze si formino su questi insegnamenti, perché nessun altro provi ancora a negare, a relativizzare, a nascondere nell’oblio. Ma c’è un altro elemento valido per i nostri giorni che il racconto della vita di Sami Modiano ci fissa con il candore della sua memoria d’infanzia: allora convivevano a Rodi, l’isola delle rose, come in tanti altri luoghi del Mediterraneo, comunità nazionali, etniche e religiose diverse, plasmate da scambi commerciali e migrazioni continue. Un equilibrio che sembrava rappresentare il superamento definitivo di avversioni e odi che nei secoli precedenti erano sfociati in conflitti sanguinosi. Poi arrivarono le leggi razziali e la guerra a spazzare via tutto. Oggi la guerra e il razzismo sono banditi, ma da tempo il vento dell’intolleranza è tornato a soffiare sul nostro mare. Lì è cominciata la nostra civiltà, lì si dovrà lottare per farla rifiorire.
(Il testo è tratto dalla prefazione al libro “Per questo ho vissuto”, di Sami Modiano, edito da PaperFirst)