L’intervista

Lavia: “Strehler è ancora adesso il più grande. E Arbasino non capiva nulla di teatro”

Gabriele Lavia - Torna sul palco e porta su Loft il suo monologo “Sogno di un uomo ridicolo”

31 Gennaio 2021

Si accendono le luci sul palco, ma di amici attorno non ce n’è neanche il sospiro.

La platea è vuota.

C’è però Gabriele Lavia, il diaframma spinge, la sua fisicità impone attenzione, il suo modulare frasi, concetti e azioni blocca i pochissimi in sala, presenti per riaccendere la tradizione millenaria del teatro, e portare sullo schermo ‘Tutta scena – Il teatro in camera’, otto appuntamenti, altrettanti protagonisti, dal 4 febbraio in esclusiva su TvLoft (www.tvloft.it).

Lavia aspetta in camerino, cordiale ma fermo. Un totem. Sa stupire, provocare, ribaltare la domanda, interrogare a sua volta, prendere i tempi, citare, recitare Dante o Amleto come chiunque può cantare Lucio Battisti; a differenza della sua proverbiale fisicità d’attore, quando è di fronte all’interlocutore diventa quasi un mimo dai movimenti impercettibili e senza le comuni percezioni dell’ambiente.

È freddo. L’ambiente è molto freddo. Ma lui è con un maglioncino a pelle (di cachemire) e giacca.

Maestro, come sta?

Come i poveri vecchi.

È poco credibile.

Ha ragione, non è giusto; come i vecchi poveri.

Finalmente a teatro. Sensazioni?

Bello, ma una serata è un momento, mentre i riti del teatro sono lunghi, di consuetudine, ed è un po’ di tempo che non li viviamo; (sorride) quando recita, il momento più bello della giornata dell’attore è la cena.

Il dopo teatro…

C’era un attore che spiegava di aver intrapreso la vita da teatrante solo per il post-spettacolo; ed è stato uno dei più grandi del Dopoguerra. Un gigante.

Chi era?

Gianni Santuccio.

Molti suoi colleghi si sono distrutti con le cene post-spettacolo.

La vecchia tradizione, e ne sono parte, non mangiava mai a pranzo, tantomeno prima di salire sul palco; il teatro è una mistica.

Perché tutta questa importanza al post-spettacolo?

Lì tutto diventa fisico, tragicamente e meravigliosamente fisico, mentre il teatro è una situazione diversa: è un assoluto, quindi impossibile da raggiungere. Però ha bisogno di una disciplina molto rigorosa.

Cosa intende?

Lo esprime la parola: è l’arte, o meglio la consuetudine del discepolo; (ci pensa) uno potrebbe replicare: “Ma come, ti chiamano maestro”. No, mi chiamano così perché non sanno cosa dicono, in realtà ho la disciplina del discepolo.

Cioè?

Non ho mai imparato. Nel momento in cui imparo, è finita.

Ha dichiarato: “Il teatro è una forma d’arte che non potendo cambiare non morirà mai”. In questi mesi ha avuto il timore di aver sbagliato?

Mestiere?

No…

Comunque impossibile, non può morire, e per una semplice ragione: non è una tecnica, mentre il cinema è già morto. Poi sento i politici disinformati parlare del cinema nelle sale, eppure ci vado spesso, e ogni volta mia moglie mi fotografa mentre sono seduto in una platea vuota.

Vuote da prima del Covid.

Da molto prima: è una téchne, e ogni téchne è superata da un’altra téchne, e ora è il momento del telefonino (e mostra il suo cellulare. Poi guarda l’oggetto, e aggiunge). Non di questo, non fa neanche le fotografie.

Il teatro è anche una forma di terapia?

No, è partecipazione e ne parlano tanti autori, a cominciare da Sofocle, Euripide, Shakespeare: nell’Amleto, Amleto stesso usa il teatro come tecnica poliziesca per scoprire la verità: lui non si mette di fronte allo spettacolo, ma guarda uno spettatore; (cambia leggermente tono di voce) diciamo che lei è lo spettacolo, tutti guardano lei alla regia di Elsinore, mentre Amleto è rivolto al Re, scruta i volti, perché il teatro era ed è il reggere lo specchio davanti alla natura dell’uomo, rappresentare il suo carattere. Questa è la ragione per cui non morirà mai.

Il suo primo approccio è stato a tre anni…

Con il Cyrano a Palermo, protagonista Gino Cervi; mi sono annoiato da morire, e non perché lo spettacolo fosse brutto, ma tutto sembrava piccolo e lontano; tempo prima, mio padre aveva dato il libro a mio fratello grande: “Leggilo ai tuoi fratelli”. Da allora ricordo ancora delle parti del Cyrano nella traduzione di Mario Giobbe.

Insomma…

Si aprì il sipario e tutto mi parve minuscolo, avvolto da una luce gialla, tipica del dramma storico, e a un certo punto non ne potevo più, con mia madre scocciata: “È l’ultima volta”; (ci pensa) quando torno a Palermo, al teatro Biondo, guardo quel palco, dove stavamo noi, accanto a quello Reale, perché mio padre per la serata aveva speso una fortuna, e parliamo del Dopoguerra, quando le linee ferroviarie erano state bombardate, per cui siamo andati in aereo.

Aveva speso più di una fortuna.

L’aereo era un bimotore sulla tratta Catania-Palermo, e io ero al finestrino, affascinato dalle eliche.

Suo padre grande appassionato…

Non grande, evidentemente voleva dimostrare qualcosa a mia madre, magari ottenere il suo perdono per qualche scappatella; dopo lo spettacolo siamo andati nel camerino a trovare Gino Cervi.

Un papà un po’ birbante.

A quel tempo lo erano tutti; era un’epoca particolare, dove si credeva che gli uomini avessero delle necessità.

Strehler per lei…

Il più grande regista dal Dopoguerra a domani; gli altri, per quanto bravi, stanno sotto e parecchio.

Ottavia Piccolo ricorda: “Strehler mi diceva cose terribili, ero terrorizzata. Avevo accanto Gabriele che mi mandava dei bigliettini con su scritto: ‘Sigh! non gli piaccio’”. Era così terribile?

No, poi siamo diventati grandi amici; lui mi ha onorato dell’amicizia, e quando ho iniziato con la regia, sin dalla prima volta, mi ha sempre mandato un telegramma o un messaggio e conservo ancora il suo ultimo, un mese prima che morisse.

Con su scritto?

‘Caro Gabriele, il nostro affetto è antico e intatto e intanto il nostro Amleto aspetta… ma non per molto’. Lo ricordo a memoria, lo tengo nel cassetto del baule che porto in tournée.

La più importante lezione che le ha lasciato…

Tutto; (cambia tono) stiamo parlando di un’altra storia; (ripensa alla Piccolo) con Ottavia ci conosciamo da quando lei aveva quindici anni, e ne ero innamorato: la andavo a vedere tutte le sere, era in scena con Il giardino dei ciliegi con la regia di Visconti e poi ne Il mercante di Venezia di Ettore Giannini; (pausa) siamo nati a un giorno di distanza, prima lei, e puntualmente per il mio compleanno mi arriva il suo messaggio ‘auguriiiiiii’ e se ci sono molte ‘i’ vuol dire ‘ti sei dimenticato del mio’. Mi piacerebbe lavorare ancora con lei e con Strehler ha interpretato Fool nel Re Lear, grande personaggio, grande spettacolo, anzi uno spettacolo inarrivabile, tutto il resto… (e muove una mano come a prendere le distanze).

Ci spiega quel “sigh” per Strehler?

Non mi faceva mai provare, non amava il mio personaggio, così un giorno presi la decisione: ‘Basta, me ne vado’, e lui a quel punto azzittì un inesistente vociare in sala: ‘Silenzio… (pausa) adesso Lavia vuole provare, mi raccomando zitti’. E io mi ero organizzato delle scene, completamente nudo, coperto solo da un perizoma color sabbia; lui vede questa situazione e sentenzia: ‘La più grande spogliarellista di Amburgo ti fa una sega’. Da quel momento è venuto fuori qualcosa di molto bello, perché era un genio e ne nascono pochi.

Una fortuna incontrarlo.

Eh sì.

Va saputa riconoscere, la fortuna.

Con lui non era complicato; il privilegio è stato di aver costruito con lui un rapporto particolare, profondo, e quando andavo a Milano potevo sedermi accanto a lui durante le prove, concessione rara, e non osavo muovermi fino alla fine.

Oggi com’è recitare con una platea vuota?

Non si può.

Perché?

Cosa vuol dire recitare? È citare nel già citato qualcosa che non era stato ancora citato per cui ricitiamo; quindi non recito il testo, il testo si prova, ma nel momento in cui sto sul palco devo ricitare l’ascolto dello spettatore; se in platea c’è la vecchietta che sgranocchia le caramelle io me ne accorgo.

Lei vede la platea.

(Stupito) Certo.

Molti suoi colleghi preferiscono di no, per evitare l’ansia.

Un conto è vedere, un altro è guardare: io non vedo, la guardo, colgo lo sguardo e l’ascolto.

Ha mai interrotto uno spettacolo?

(Ride, a lungo) Sono il più grande interrompitore dell’ultima storia del teatro: non perdono nessuno.

Castiga.

Tutti, e il cellulare è il massimo; la maggior parte della gente è cretina.

Per il teatro a cosa ha rinunciato?

A nulla, è la mia vita e spero possa esserlo ancora; piuttosto l’ha condizionata, e ogni vita è condizionata: vorrei aver fatto più spettacolo, aver recitato meglio delle parti; non posso più cimentarmi con Amleto.

Ha tre figli, si sarà perso dei passaggi.

E non ho mai rinunciato a una tournée, piuttosto li ho portati con me e due di loro sono attori molto bravi, la piccola è un fenomeno.

Le chiedono consigli?

Ogni tanto, con la piccola ora terrorizzata per la sua prima regia: ‘Non so la parte a memoria’.

Un classico.

Io non so mai la parte a memoria.

Sul palco, come risolve?

Ho portato in scena spettacoli molto complessi, come il Sei personaggi o Vita di Galileo, con qualcuno in scena preposto a suggerirmi.

Nel panico, mai?

No, invento: non so le parole, ma so di cosa parla.

Il suo primo palco.

Dalle monache per la recita di Natale, a me il ruolo di San Giuseppe, e ricordo ancora le battute: ‘Consolati Maria del tuo peregrinare…’ (e continua, e spiega anche le intonazioni volute dalla monaca).

Arbasino divideva gli artisti in tre categorie…

(La domanda non termina, lui va diretto) Capiva poco di teatro. Noi abbiamo dei miti, ma era un po’ snob; grande intellettuale, sia ben chiaro, ma di teatro… cosa sosteneva?

Divideva gli artisti in: brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro.

Il teatro è più importante, ma non era il suo mestiere; l’attore è un abisso.

È un venerato maestro.

No, sono vecchio: ho 79 anni.

Li sente?

Certo, ed è meglio essere giovani, almeno non sai; sapere è un inganno. Mi mantengo abbastanza su cose che non so.

Quando ha iniziato a sentirsi vecchio?

Quando ho cominciato a essere vecchio.

Sì, ma quando…

Uno inizia a quarant’anni.

L’ha presa lunga.

Rosso di capelli ne ho sempre dimostrati meno, però non ho più l’agilità fisica di prima.

È considerato un sex symbol.

Magari, mi piacerebbe. Ma sono brutto. Ma alle donne mi sono dedicato.

La sua ex moglie, Monica Guerritore, l’ha definita un folle.

Non mi piacciono i sani; essere ragionevoli non vuol dire nulla, ne conosco molti per i quali non nutro alcuna stima.

Un suo vizio.

Sono pigro. Pigrissimo. Mi salvo solo perché ho i sensi di colpa, e la sera, per disperazione, mi cimento con la ginnastica. In casa ho una sbarra.

Quante trazioni?

Tante, più di lei.

Ci vuole poco.

Una decina.

Scaramanzia.

Ho dei piccoli cerimoniali: salgo sul palco sempre dallo stesso lato.

L’oroscopo lo legge?

Ogni tanto.

Lotteria?

Mai giocato a nulla.

Chi è lei?

Un poveraccio che ha fatto tanto teatro, che ha perso tutto per il teatro, e senza rimpianti.

(Shakespeare, ne “La dodicesima notte”: “La pazzia, signore, se ne va a spasso per il mondo come il sole, e non c’è luogo in cui non risplenda”)

Da Il Fatto Quotidiano del 31 gennaio 2021

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